Ndileka Mandela è così abituata a rispondere riguardo al suo rapporto con suo nonno, Nelson Mandela, che all’inizio non capisce con precisione la mia domanda.
“Mi è stato chiesto spesso del mio rapporto con lui e su chi sono io in relazione a questo, dimenticando che fino ai sedici anni non l’ho praticamente potuto vedere. Era in prigione (a Robben Island, ndA) e fino a quell’età era stato impossibile avere un contatto: la persona che sono è sicuramente conseguenza ed eredità della mia famiglia, di mia madre e di mia nonna, loro mi hanno formata”.
Siamo a Factory Grisù, a Ferrara, in un martedì in cui l’estate si è presa una pausa.
Piove e l’evento principale di questa tre giorni con Ndileka, nipote di quel Mandela che è simbolo immortale della lotta contro le disuguaglianze, è stato appena spostato al Teatro Nuovo: il concerto della super band “The Liberation Project” nel contesto della giornata mondiale delle cooperative, culmine di una serie di incontri e visite organizzati da Legacoop e che ci ha portati all’interno del piccolo studio di Web Radio Giardino per una intervista privata.
Sicuramente porti un cognome importante: quale consideri sia la sua eredità morale, quale messaggio vorresti portare al mondo?
Ndileka sospira per un attimo e diventa chiaro come ora non stia per ripetere parole pensate e scritte da anni, quasi recitate ogni giorno. Poi alza gli occhi e mi fissa: lo farà praticamente per tutta l’intervista, sostenendo lo sguardo con una fierezza di rara intensità.
La mia eredità. Quello che vorrei fare io nel mondo è portare un messaggio di aiuto. Lavorare su concetti come educazione, cultura, insegnamento, rispetto nei confronti di ogni differenza. Eliminare povertà e discriminazioni. Il concetto principale è “prendersi cura di”, chiunque esso sia.
Ho letto che sei infermiera e sei stata vicino a tuo nonno Nelson negli anni della sua malattia. Come ha influenzato la tua vita questo percorso, e quanto i valori che porti con te sono in qualche modo conseguenza di questo? Te lo chiedo perché faccio lo stesso lavoro.
Attualmente non faccio più l’infermiera a tempo pieno. Però sicuramente è stato un passaggio importante per me: è un tipo di lavoro che ti insegna a stare vicino alle persone, a non giudicare, soprattutto. Ti avvicina ad un concetto fondamentale, quello della compassione. Come saprai è un lavoro in cui ci si prende cura di una persona ed allo stesso tempo ci si difende, viene necessario distaccarsi dalla sofferenza, altrimenti farebbe troppo male: questo mi ha reso più forte e decisa. E tutto questo sicuramente è qualcosa che ha contribuito a formare la persona che sono oggi.
Si vede e un paio di volte glielo dico: Ndileka è un po’ stanca. Da alcuni giorni gira per l’Italia con lo scopo dichiarato di assorbire idee ed esperienze, possibilità da riportare nel proprio paese: non è un tour di sé stessa, non è in cerca di luci ma di una scoperta, di uno sguardo verso altre realtà. Eppure esprime i suoi pensieri con ampi discorsi che parlano non a me, ma ad un popolo, forse a tutti i popoli. Due anni fa è scesa in campo a fianco del movimento #metoo, raccontando di un abuso subito in famiglia, nel proprio letto. Le chiedo come vede questa battaglia, da una parte sotto la luce dei media, dall’altra, a livello sociale, ancora difficile da vincere, in Sudafrica come in Italia, come se la figura maschile non riesca ancora fare quel salto di pensiero richiesto per eliminare violenze e discriminazione di genere. Le chiedo se ha speranza.
Certo, che ho speranza. Non bisogna mai perdere la speranza. Soprattutto bisogna avere fiducia nei giovani, nel domani. Parte del problema è anche nel come raccontiamo i fatti: parlare di violenza nei confronti di una donna è in fondo già sbagliato. È ora di iniziare a parlare di violenza, semplicemente. Se si va ad inserire il tema del genere si va ad inquinare la discussione, escono le polarizzazioni e le correnti di pensiero: se invece impariamo a parlare di violenza e basta, sarà diverso.
A proposito di modi e vie di racconto, cosa ne pensi dei social network e del loro impatto sulla società?
Credo ci siano elementi negativi e positivi in questi mezzi di comunicazione.
Ma la bilancia dove pende?
Dipende. Twitter ad esempio è un muro di negatività, si trovano energie negative dentro, troppo spesso. Soprattutto questi mezzi allontanano il contatto tra le persone. In Sudafrica siamo abituati ad essere cresciuti in famiglia, come credo anche in Italia per quanto capisco, dove c’è una forte impronta all’educazione da parte dei genitori e dei nonni: tradizioni e comportamenti si apprendono in questo modo. Eppure queste nuove abitudini rompono alcuni legami, ci avvicinano ad un mondo dove non sappiamo più niente delle persone vicine, si rompe il concetto di comunità. Non sappiamo più spesso chi abita vicino a noi, ci siamo abituati all’indifferenza. Sicuramente passiamo troppo tempo all’interno dei social network, rispetto al mondo reale.
In questa lunga giornata Ndileka ha conosciuto e scoprirà ancora successivamente il mondo delle cooperative. In un incontro privato con gli operatori di CIDAS esprimerà forte ammirazione: voi siete cinquanta anni davanti a noi. Racconta il fallimento del governo, nella tutela delle persone e guarderà con entusiasmo ad associazioni di persone che dedicano la loro vita all’aiuto delle persone in difficoltà. Concetto particolare: preferirà guardare ai giovani, mentre in Italia si parla spesso di anziani: l’orizzonte per lei non è oggi, ma il futuro.
– Credo che nel mondo oggi, spesso, persone forti lavorino per avere consenso gettando muri, divisioni, esaltando il ritorno a tradizioni che portano indietro una società che allo stesso tempo avanza velocemente, a livello di coscienza, sui temi dei diritti civili. Mi viene il mente il Pride sempre più partecipato da persone che non sono omosessuali ma si riconoscono in una festa di libertà ed equità. –
Che mondo sogni, quali azioni possono davvero cambiare e far pendere definitivamente l’ago della bilancia nella direzione migliore per un mondo migliore?
A mio parere molto sta nell’educazione e nella cultura. Il modo per far cambiare tutto è cambiare le persone per cui votiamo. Dobbiamo iniziare a votare le persone che non costruiscono muri o divisioni ma quelle che rispettano le tradizioni, sono sagge, conoscono la storia e ragionano per le generazioni future, per i bambini di domani. Dobbiamo dare il nostro voto a persone che sono degne dei saggi di ieri, degli anziani. A quelle persone che sono esempi di rispetto, aiuto, progresso, libertà, educazione. È il nostro voto a fare la differenza.
È noto come sistema operativo Linux, ma in Sudafrica Ubuntu è quasi uno stile di vita, una filosofia personale. In cosa consiste?
Ubuntu è il concetto di comportarsi nella maniera più giusta. Indica la benevolenza, l’aiuto, il rispetto e la compassione. L’essere una bella persona, fare le azioni giuste.
Un’ultima domanda: hai parlato spesso in passato dell’importanza della musica e dello sport, come motori di integrazione. Questa sera ci sarà un concerto con musicisti d’eccezione, per una band che fa da ponte tra Africa ed Europa. Cosa è per te la musica?
La musica in Sudafrica è qualcosa che accompagna tutta la vita, ogni giorno. Per noi, per me in particolare è qualcosa che ti fa cambiare lo stato d’animo. Nel nostro paese (sorride, Nda) le persone cantano sempre: cantano se sono arrabbiate, cantano se sono tristi, cantano se sono felici: non puoi sapere cosa passa per la loro mente eppure cantano. Questo riesce a farti passare da un umore all’altro.
Ci consiglia una canzone (“Guantanamera” canzone popolare cubana ormai conosciuta in tante versioni ad ogni latitudine). La ringraziamo, mentre all’interno dello studio Ndileka e Adam, presidente dell’associazione Cittadini del Mondo e suo traduttore per la giornata studiano un piccolo strumento cilindrico che pare un grande posacenere e invece diventa fonte di percussioni. Nel suo vestito sgargiante, metafora di una persona che con fiera passione vuole cambiare le vite delle persone in difficoltà, portando l’esempio e il proprio impegno.
Ubuntu a tutti, allora.
PER APPROFONDIRE:
Il profilo Facebook di Ndileka Mandela:
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