Incontro Mattia Marchetti al Parco Massari un sabato mattina di sole, in occasione dell’uscita del suo secondo libro, Messico in Camion. Mentre passeggiamo, il parco insolitamente tranquillo, mi racconta che vive a Ferrara da 5 anni, dividendosi tra la libera professione di psicologo e la passione per la scrittura: “Come psicologo mi occupo di storytelling individuale, aiuto le persone a raccontare la propria storia, andando a rielaborare le zone problematiche che provocano sofferenza. Anche in questo senso mi piace molto occuparmi di narrazione e sicuramente queste due professioni lavorano in maniera sinergica”.
Mi mostra il suo libro fresco di stampa e mi spiega che tutto è nato quando qualche anno fa ha trascorso un intero anno in Messico muovendosi solo con mezzi lenti, di fortuna o a piedi. Tornato in patria, con un taccuino pieno di appunti, ricordi e impressioni ancora molto vivide, sente fortissima la necessità di fissare su carta l’esperienza vissuta.
Nei sei mesi successivi al ritorno scrive un diario-reportage di viaggio, ma si accorge presto che la forma diaristica non lo soddisfa pienamente perché le parole non arrivano a emozionare e a colpire in profondità. “Paradossalmente, non sono mai stato amante dei diari di viaggio… On The Road di Kerouac non mi è mai piaciuto, ad esempio – mi confida. – Avevo una necessità personale di far sedimentare l’esperienza vissuta in Messico e di riordinare questo incredibile viaggio dentro e fuori di me e mi sono accorto che la forma romanzesca, essendo più modellabile e più personalizzabile, era più adatta al mio scopo”.
Il risultato è un romanzo di formazione parzialmente autobiografico, in cui l’alter ego di Mattia, deluso dalla scarsità di prospettive in Italia, decide di prendere un aereo per il Messico, ospite di una famiglia del posto. Lavora come insegnante di italiano ma ben presto sente il richiamo della strada, vuole seguire i nuovi stimoli che sta scoprendo in quel paese così straripante di vita. Intraprenderà allora un viaggio on the road durante il quale scoprirà che l’idea iniziale del viaggio come esperienza romanticamente eroica è molto diversa dalla realtà… L’idealismo dorato del protagonista andrà sgretolandosi pian piano facendo emergere squarci di luminosa realtà, fatta di molti personaggi strambi e imprevedibili, che il protagonista affronta con autoironia e con lo stupore di chi vuole scoprire dove la vita può portarci quando allentiamo la presa e ci lasciamo sorprendere. Aveva ragione Italo Calvino quando diceva che “di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda”.
Per scrivere il suo libro sono stati necessari 5 anni: “Certo, le idee e l’ispirazione aiutano, ma la realtà è che la scrittura è esercizio quotidiano, metodo e olio di gomito, si tratta a volte di scrivere e riscrivere la stessa frase decine di volte prima di trovare pace” mi confida. Mattia mi spiega che per lui scrivere è soprattutto una necessità, difficile da gestire perché il processo comporta anche una fatica emozionale che diventa quasi fisica e sembra quasi di farsi violenza da soli, a volte.
“In quanto giovane autore, trovo molto utile leggere le biografie dei grandi autori del passato, anche per comprendere le difficoltà cui sono andati incontro. Sicuramente bisogna avere la giusta fiducia in se stessi, andare avanti anche quando vengono dubbi o ripensamenti. Penso di aver capito che per sviluppare una propria identità di scrittore bisogna coltivarla nel tempo, pagina dopo pagina, continuando a praticare la resilienza” mi spiega mentre passeggiamo.
E pensare che fino ai 18 anni gli unici libri che aveva letto erano i famigerati libri obbligatori per le vacanze. La vera svolta è arrivata con Il Lupo della Steppa di Herman Hesse. “L’ho letto in un momento un po’ buio di tormento adolescenziale e lì mi sono sentito profondamente capito, come mai prima di allora: c’erano persone che riuscivano a raccontare così bene esattamente quello che provavo io! Ho sentito che il libro poteva davvero guidarmi verso un percorso di crescita personale”. La letteratura è l’unica forma d’arte che riesce a dargli quel senso di rispecchiamento interiore: i libri cardine che lo hanno davvero segnato sono Viaggio al Termine della Notte, Mort à Crédit di Céline, L’Idiota e I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Capolavori. “Lo sapevi che Céline non pubblicava finché tutto non gli sembrava perfetto?” mi chiede. Ha amato anche Moravia, Calvino, i ferraresi Pazzi e Marani poi ancora Ammaniti, Nove e sicuramente anche Bassani. Come molte persone affette da ciò che io chiamo “sindrome involontaria della lettura nostalgica”, tende a prediligere autori classici rispetto ai contemporanei.
Per quanto riguarda il prossimo futuro ha già in cantiere un romanzo distopico: il progetto è molto ambizioso perché l’opera sarà molto più corposa delle precedenti in quanto a numero di pagine. Mentre nella letteratura anglofona il genere distopico è da anni molto esplorato e utilizzato (basti pensare al classico 1984 di Orwell, a Brave new World di Huxley, al Racconto dell’Ancella della Atwood, solo per citare i più celebri esempi), in Italia purtroppo è davvero poco approfondito: si tratterebbe di farsi strada in un ambito che è, letteralmente, ancora tutto da scrivere. Il che ovviamente rende la sfida entusiasmante per l’autore e l’attesa irresistibile per il lettore.
Mentre torno a casa in bici, a forza di parlare di viaggi e di autoriflessione mi viene in mente la poesia Itaca di Kostantinos Kavafis:
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?