Era proprio il 5 giugno 1678 quando, pur non potendo scegliere (come voleva) teologia, Elena Cornano Piscopia si laureava, prima donna in Italia, in Filosofia, all’Università di Padova. Ed era circa metà maggio quando in redazione di Filo si è pensato di dedicare un approfondimento alla “supermamma” Carlotta Giorgi che, in sfregio ai cinque figli, si permetteva di essere una ricercatrice a tempo pieno e addirittura di avere un promettente campo di ricerca nell’ambito della cura ai tumori. Da poco protagonista di un articolo sul Corriere della Sera e da ancora meno ospite all’interno del programma “Le parole della settimana” di Massimo Gramellini su Rai3 come testimonial Airc.
Per dovere di onestà si era pensato in un primo momento che fosse giusto far raccontare questa storia ad una donna. Il fatto che sia andata diversamente ha imposto una riflessione: aveva davvero senso che l’angolo di visione della storia di Carlotta fosse quello della madre di cinque figli? Che la chiave di lettura fosse quello della donna, della moglie, della madre, come se in qualche modo raccontarne l’eccezionalità fosse un modo diverso per dire: non è la normalità? D’altra parte, se pensiamo allo sport, raccontiamo le imprese epiche, i traguardi incredibili, la rimonta impossibile o la vittoria dello sfavorito. Queste sono le storie, perché le storie sono quelle che hanno qualcosa che merita di essere raccontato, che sono diverse dalla quotidianità.
Nel nostro caso, porre l’accezione sulla donna e sulla mamma sarebbe il più grande errore, il primo leggero accenno di discriminazione, un modo diverso di dire “anche se è donna, anche se è mamma, sta facendo qualcosa di incredibile”. Per cui, per decisione (non) democratica andiamo oltre e cambiamo ottica. Anche perché c’è parecchio da raccontare.
Un’ora circa di visita al Cubo, edificio all’interno del complesso dell’ex Ospedale Sant’Anna, nei laboratori di ricerca. Se si potesse raccontare per immagini sarebbe una di quelle sequenze cinematografiche in cui una voce narrante si muove, senza stacchi, tra spiegazioni scientifiche, laboratori dove giovani studenti ricercano e studiano, microscopi pronti ad analizzare, studenti che si presentano per l’inizio di un tirocinio, chiedono informazioni su risultati oppure li analizzano assieme, mentre a breve iniziano lezioni universitarie ed in seguito sono già in programma altre riunioni.
Venuto il fiatone? È una mattina normale, qui al Cubo. Un piccolo mondo operoso coordinato da Carlotta Giorgi e da Paolo Pinton, docenti universitari e soprattutto ricercatori.
“Perchè è giusto dirlo: in sostanza tutto quello che facciamo è qualcosa in più. Potrei semplicemente insegnare e dedicare un tempo minimo alla ricerca, come fanno tanti, senza che ci sia nulla di male. Ma ho sempre desiderato lavorare a qualcosa che avesse ripercussioni pratiche, tanto che in origine non volevo nemmeno una carriera accademica. Però mi sono (e mi hanno) convinta che era un percorso necessario e adesso, finalmente ci stiamo arrivando”. Carlotta parla velocemente e soprattutto con energia e vitalità, quella luce negli occhi di chi lavora a qualcosa per puro entusiasmo personale, perché ci crede con tutte le sue forze. Alla lavagna c’è ancora una (sicuramente semplificata ma efficace) sintesi del suo lavoro.
“Il concetto di base è semplice e comprensibile: attualmente quando si ha un tumore spesso si inizia un protocollo di chemioterapia. Purtroppo però l’efficacia non è totale: servirebbe ad uccidere le cellule malate che spesso non muoiono realmente e ad un certo punto si ripresentano. Stiamo studiando quel percorso: al segnale di morte della cellula segue un’onda di rilascio di ioni calcio che nelle cellule tumorali è alterato. E la cosa particolare che abbiamo scoperto negli anni è che risulta alterato in tantissime tipologie di tumore diverse tra loro. Se noi riusciamo, e ci stiamo riuscendo, a mettere assieme chemioterapia e farmaci che abbiano un’azione diretta su questo segnale di morte alle cellule oncologiche, possiamo avere un aumento di efficacia assolutamente superiore ai protocolli attuali, senza nemmeno immettere nuovi farmaci sul mercato, usandone invece di già presenti”.
Carlotta descrive e mostra i suoi laboratori, popolati da giovani ricercatori entusiasti. Racconta che molti di loro potrebbero anche fare scelte diverse: i fondi universitari sono insufficienti a gestire macchinari e stipendi di tutti e si fa ricorso a bandi e contributi esterni per riuscire a proseguire nel lavoro.
Ma c’è la sensazione comune di stare lavorando a qualcosa che può aiutare nel concreto e nel breve termine, non in un futuro lontano.
“Forse nel giro di un anno o due, realisticamente, possiamo pensare di partire con le sperimentazioni sull’essere umano. Già ora abbiamo trovato, dopo una iniziale diffidenza, una buona collaborazione tra i medici ospedalieri per iniziare a ragionare insieme: la nostra conoscenza sul farmaco li può aiutare nel somministrare protocolli non generici, anche se validati e comprovati, collaborando in modo integrato a migliorare sensibilmente la speranza di vita delle persone ammalate di cancro”.
Il passaggio necessario è questo, e bisogna raccontarlo: Carlotta e Paolo si dichiarano felicissimi del supporto dell’Università di Ferrara. La possibilità di avere spazi propri, una piccola realtà dove collaborare in maniera veloce con le altre realtà (quelle ospedaliere ad esempio) e tanta passione consentono in proporzione alle dimensioni della città (e quindi di fondi, studenti e personale) di ottenere risultati di prestigio a livello nazionale, con ottimi posizionamenti nelle classifiche italiane.
“Certo, c’è competizione, non solo nazionale ma mondiale, per essere i primi a pubblicare nelle riviste scientifiche. Ma c’è anche collaborazione: se c’è una scoperta in una parte del mondo, si va a fare esperienza e si portano qui le nuove conoscenze. Noi l’abbiamo già fatto diverse volte: Boston o anche Hawaii, dove abbiamo una collaborazione attiva con un ottimo centro di ricerca diretto da un italiano e ci confrontiamo in maniera assolutamente naturale e reciproca. Vogliamo come tutti portare risultati”.
La vera luce sotto cui leggere la storia di Carlotta è quella della ricercatrice che non si pone ostacoli. Che non ha puntato a spostarsi in altre nazioni dove possibilità e carriere erano più facili, ed ha messo in piedi un promettente ambiente di ricerca capace anche di coinvolgere giovani che potrebbero ambire a carriere più stabili o redditizie. Certo, non ha nemmeno dubitato che fosse possibile fare questo percorso sacrificando la famiglia, man mano che cresce sempre più cosciente dell’importanza del lavoro svolto.
“I miei figli passano spesso in laboratorio, loro come molti bambini delle scuole che hanno guardato al microscopio, scoperto e visto com’è fatta una cellula, sanno che ci sono persone malate, sanno cos’è un tumore e che abbiamo ancora poche armi per combatterli e che, molto semplicemente, stiamo cercando nuove strade per curarli meglio”.
Questa, allora, è la vera storia da raccontare.
Lo spot Airc
BONUS: Carlotta Giorgi ospite a “Le Parole della settimana” Rai 3 (dal minuto ’43)