«Chi parla male pensa male. E chi pensa male vive male». Così pontificava laconico Michele Apicella alias Nanni Moretti a bordo vasca mentre cercava di risolvere il rebus della marcatura dell’asso Budavari. La lezione, per quanto velleitaria, ritorna utile quando si tratta di analizzare a tutto tondo una delle più discusse innovazioni del giuoco (per dirla col Cavaliere) del calcio, che ha fornito dolori lancinanti a tutti i ferraresi nel corso della stagione, e di cui oggi, a pochi respiri dalla conclusione della stagione, possiamo interpretare le storture con quel minimo di distacco ironico che si meritano i giusti (e i salvi!). Il VAR; o la VAR. Ecco, appunto, che affidabilità può mai avere un dispositivo che nasce su un equivoco grammaticale genetico? Che manco riusciamo a identificarne il genere?
Sconnesse fondamenta, che producono una architettura pericolante. Troppo facile accusare i detrattori di passatismo antistorico, di ritorno agli anni bui del medioevo calcistico (secondo i malati di VAR, i dubbiosi abitano lo stesso girone dantesco di chi vorrebbe tornare alla Coppa dei Campioni, alle partite tutte la domenica alle 15.00 con successivo 90° minuto condotto da Paolo Valenti, al passaggio indietro al portiere, e al 2 che marca l’11 mentre il 5 segue a uomo il 9) quando basterebbe usare un minimo i metodi d’indagine dello storico per smontarne la funzionalità. Esattamente ciò che proverò a fare.
Qual è la mission del(della) VAR? Fornire un aiuto il più oggettivo possibile all’arbitro nella valutazione di ciò che avviene in campo, per sanare eventuali ingiustizie. Il principio ha una data di nascita ben precisa. 30 luglio 1966, minuto 101 della interminabile finale dei mondiali Inghilterra-Germania: ovvero, il gol fantasma più famoso della storia del calcio. Il britannico Hurst calcia lo Slazenger 25 Challenge (l’ultimo pallone antico, prima dell’arrivo dei pentagoni neri su fondo bianco, per la verità antichi anch’essi oggi) oltre il portiere teutonico Tilkowski. La sfera colpisce furiosamente la traversa e torna in campo. Al di qua della riga, secondo l’arbitro svizzero Gottfried Dienst. Una decisione che dura qualche manciata di secondi, quelli riempiti dai festeggiamenti degli inglesi e dal consulto con il guardalinee russo che a gesti spergiura che quel pallone, la linea, l’aveva varcata eccome. Da quel momento, per decenni, autorevoli commentatori e insigni matematici si sono alternati nell’esercizio di misurare la traiettoria del pallone, senza peraltro giungere a una sentenza definitiva. Ironia della sorte, la decisione di introdurre la goal-line technology avverrà il giorno della, freddissima, vendetta tedesca, quando un pallone scagliato da Lampard durante gli ottavi dei mondiali 2010 non varrà il sacrosanto gol inglese, con successiva vittoria della Germania (che poi, per la verità, dilagò contro il gruppo guidato in panchina da Fabio Capello).
Dobbiamo tornare ai supplementari di un’altra finale mondiale per salutare il primo, empirico, utilizzo del(della) VAR. Siamo alle battute finali di Italia-Francia. Materazzi ipotizza mestieri antichi per le donne di casa Zidane, e Yazid (cit. Caressa) reagisce con una testata in pieno petto. Il gesto non può essere visto dall’arbitro argentino Horacio Elizondo, che nel frattempo stava seguendo l’azione nell’altra metà campo. Ma una telecamera ha registrato l’accaduto. Non sappiamo esattamente come siano andate le cose: forse il quarto uomo, avvertito dalla tribuna, avverte il direttore di gara; forse l’inquadratura è ribattuta sul maxischermo all’interno dello stadio di Berlino. Di sicuro, Elizondo torna sui suoi passi ed estromette dalla sfida Zidane, che avrà maledetto in cuor suo l’ardore mediterraneo e l’invadenza delle telecamere.
Piccolo riassunto parziale: il(la) VAR funziona quando serve a fornire a colui che giudica in campo uno strumento di misurazione oggettiva di alcune componenti del gioco, e quando gli garantisce un occhio supplementare in grado di scrutare ogni angolo del rettangolo di gioco. Cosa è rimasto di questo principio filosofico nel(nella) VAR che oggi tempesta le nostre domenica (ma anche sabati, venerdì e lunedì!), strozzando in gola la gioia di un goal o regalandocela a posteriori? Poco o nulla, purtroppo. Nato(a) come strumento di giustizia storica, si è trasformato(a) in sinistro esercizio di controstoria. Paradigma storiografico ormai abusato nell’ambito della public history, la controstoria gioca da un lato sull’interpretazione di fatti presentati in modo polemicamente diverso rispetto alla tradizione, evocando l’idea di stanare il dietro le quinte delle posizioni ufficiali, e dall’altro sull’ipotesi di cosa sarebbe potuto accadere se alcuni snodi storici avessero preso direzioni diverse. Gli esperti del settore lo chiamano “paradosso metodologico del naso di Cleopatra”: come sarebbe cambiata la storia europea se Luigi XVI, in fuga da Parigi e dalla Rivoluzione francese, non fosse stato riconosciuto e fermato alla stazione di Varennes? E come se a Waterloo non avesse diluviato, in pieno giugno, per 10 giorni consecutivi, rendendo vano il perfetto piano di battaglia di Napoleone?
Interrogativi caduti nel nulla, ma che in campo si sostituiscono ormai costantemente alle versioni ufficiali. Al punto di vedere goal (è il caso paradossale di Spal-Fiorentina, ricordate?!) considerati mai esistiti perché il potere retroattivo del(della) VAR ha riportato tutti indietro a qualche snodo precedente, cancellando l’esistente e realizzando una realtà alternativa. Il goal di Valoti? Solo un’immaginazione, perché si è riavvolta la linea del tempo, scoprendo che Chiesa era stato toccato in area, che Luigi XVI aveva varcato il confine dei Paesi Bassi, e che nell’estate di Waterloo il sole spaccava le pietre. E magari oggi saremmo tutti sudditi di una monarchia assoluta, parlando francese.
Attenzione, non sempre la storia accettata è migliore di quelle possibili, o viceversa. Ma rimane un dubbio insormontabile: cosa farne di quel lasso di tempo realmente vissuto eppure mai esistito? Qual è, dei due, il tempo della realtà e quale il tempo della psiche? Cosa rimane al fratellino di Valoti, abbracciato a bordo campo dopo una gioia illusoria? Cosa rimane a un atleta o a un ciclista che scoprono di aver vinto un mondiale o un Tour de France a tavolino per squalifica di chi li ha preceduti sul traguardo, dopo 12 anni nei quali si sono rammaricati per essere arrivati terzi, con la loro carriera per 12 anni condizionata da quel risultato? E più banalmente, se tutto ciò che accade dopo lo snodo è annullato, l’assunto vale anche per gli ipotetici falli da espulsione avvenuti in quello spazio-tempo fuori dal tempo, o per i buu del pubblico?
Piccolo riassunto finale. Il(la) VAR dovrebbe fare giustizia, e troppe volte si arrotola nei cavilli della legge (cit. De Gregori). Dovrebbe togliere discrezionalità, e invece la aggiunge. Perché nell’ignoto protocollo (meno chiaro di quello sottoscritto dal governo legastellato con la Cina) non si è ancora capito con esattezza quando e come un arbitro possa/debba farvi ricorso. Perché molto spesso tre incapaci che giudicano al posto di uno aumentano la percentuale di errore. Perché se chi è al(alla) VAR potrebbe/vorrebbe essere in campo al posto dell’arbitro, ogni suo giudizio sarà ideologicamente orientato; l’annoso problema della separazione delle carriere, l’avrebbe chiamata Falcone.
L’è dunque tutto da rifare? Basterebbe tornare al principio originario: il(la) VAR intervenga su un pallone che ha varcato la linea, e su una azione contraria allo spirito del giuoco non vista (perché gli occhi erano altrove). Per il resto, che l’arbitro sbagli in santa pace. Servirà perlomeno a non moltiplicare i futuri possibili.
E dopo tanta teoria, qualche esercizio. Cosa sarebbe accaduto se si fosse ricorso al(alla) VAR nel celeberrimo contatto Ronaldo-Iuliano? Niente. Ceccherini avrebbe riguardato per diversi minuti l’azione, avrebbe forse mantenuto i provvedimenti disciplinari per le scomposte proteste interiste (ma questo chissà, il protocollo mica lo spiega), quindi avrebbe decretato la punizione a due in area per fallo di ostruzione (perché è pur sempre la Juve). Palla sulla barriera, e bianconeri che terminavano la partita in vantaggio 1-0. Cosa sarebbe successo se fosse intervenuto(a) il(la) VAR sul colpo di testa di Muntari in Milan-Juve del 2012? Quasi niente. La squadra di Ibra e Silva sarebbe andata sul 2 a 0, forse avrebbe vinto quella partita, forse avrebbe vinto il campionato, forse non si sarebbe mai aperto il ciclo di Conte, e da lì quello di Allegri. Ma questa è solo un’altra storia possibile. Nel frattempo, io continuo a esultare insieme al fratellino di Valoti, urlandogli che sì, è tutto vero. Proprio mentre i parenti di Chiesa stanno attraversando le forche caudine di una vigilia terribile.