diario di viaggio e foto di Dario Nardi – seconda puntata
Il progetto / Prima puntata
Ci eravamo lasciati tra le languide curve della parte iberica a me più cara, ripartiamo a malincuore da Cabo de Gata consapevoli che di bello ce n’è ancora tanto lungo il nostro cammino. L’umore è alto nella squadra, per qualche giorno abbiamo riposato gli occhi affaticati dal tanto cemento colorato che caratterizza gli obbrobri ecologici della costa sud-est. Il riposo dura poco per il primo team di 7milamiglialontano, collina dopo collina attraversiamo la parte profonda della affascinante regione andalusa ma non passerà molto tempo prima di scorgere la vera faccia di questa zona. Scintillante e apparentemente festante al vento si apre a noi una distesa lunga decine e decine di chilometri fatta di accecanti teloni bianchi plasticati issati su 30.000 ettari di serre.
Avevo sentito parlare del “mar de plastico” ma non mi ero mai figurato esattamente a cosa esso potesse assomigliare e perché avrebbero dovuto chiamarlo propiziamente con l’epiteto di “Mare”: sono le famose serre del miracolo agricolo di Almeria. Qui è avvenuta l’ultima cosa che ti aspetteresti dalla zona più arida d’Europa, appena 220mm di precipitazioni l’anno sono bastate a trasformare un semideserto, di fatto la zona più arida del continente, nel florido orto d’Europa. Il giusto sistema di irrigazione e Il giusto fertilizzante hanno reso possibile tutto ciò. Il 73% dei 3,4 milioni di tonnellate di ortofrutta qui prodotte finisce in soli tre paesi europei: Germania, Francia, Regno Unito. Il resto è distribuito tra le nazioni rimanenti (Italia compresa) e solo una piccola parte resta in zona.
La possibilità di sfruttare due/tre raccolti l’anno ha trasformato questo angolo desertico in una fabbrica costante di pomodori, peperoni, melanzane, cetrioli, fagioli, meloni e angurie stimolando un giro d’affari che raggiunge l’esorbitante cifra di 2,5 miliardi di euro l’anno, senza contare tutto l’indotto annesso. L’intera squadra rimane allibita davanti a questa visione. Giuliano con Vincenzo al seguito, è alla costante ricerca del punto più alto da cui scattare l’immagine che possa dare una minima idea dell’immensità del problema, Matteo fa lo stesso in visione video, io mi figuro la scena da riprendere dall’occhio volante del fidato drone e Roberto, da buon driver, conduce la troupe sulle le strade delle colline andaluse.
Ci rendiamo presto conto che l’enorme impatto ambientale di questo tipo di coltura intensiva è tanto tragico quanto accettato in nome del solito guadagno, l’accostamento con gli scempi industriali visti qualche centinaio di chilometro prima si fa esplicito sotto un’altra chiave di lettura.
Questo estremo sforzo di risorse e mezzi rende possibile le comodità di un consumo totalmente scollegato dai ritmi naturali, i motivi del perché questa sia una delle rovine ecologiche del nostro tempo sono molteplici: ecologici, economici, salutari, qualitativi e infine quelli su cui ci si sofferma sempre troppo poco, motivi sociali. Per spiegare questo vi racconterò direttamente quello che abbiamo incontrato lungo il nostro cammino.
Io, Matteo e Giuliano decidiamo di tirarci su dal letto quando il sole non è ancora sorto. La luce all’alba è il momento perfetto per cogliere il mare di serre nel suo scintillio mattutino e in più coincide con l’ora in cui tutti i lavoratori impiegati nelle serre arrivano sul posto di lavoro. L’obiettivo è incontrarne alcuni per fare qualche ritratto e per coglierne la testimonianza in una breve intervista. Compito non facile e non riusciamo a convincere nessuno di loro fino a mattino inoltrato quando scorgiamo, al fianco di una rotonda polverosa, un ammasso di cubi fatti di lamiere, legno e degli stessi teloni che ricoprono copiosi le famose serre.
Non sto per raccontarvi nulla di nuovo, le stesse scene sembrano copiate e incollate direttamente da alcuni campi della nostra cara Italia, entrarci e vederlo con i propri occhi è poi tutt’altra storia. In tre ci addentriamo in punta di piedi in una baraccopoli dormitorio a tutti gli effetti, centinaia delle stesse braccia che raccolgono frutta e verdura per i nostri capricci fuori stagione, stanno riposando dentro a questi cubi polverosi dove la dignità si regge in bilico su trentasei euro di paga al giorno. Riusciamo a raccogliere la testimonianza di un giovane ragazzo marocchino che ci invita ad entrare tra le sue quattro pareti di legno che condivide con un connazionale più vecchio di lui. Una simil poltrona e l’ottimo the alla menta che ci offre ci danno una sensazione di normale abitudinarietà che ci fa quasi dimenticare cosa ci sia fuori di li.
Said ci racconta a fatica dell’arrivo illegale, della famiglia lontana, della necessità vitale di accettare qualsiasi lavoro gli passi tra le mani e di quanto la sua situazione sia complementare a tutti quelli che condividono la baraccopoli con lui. Avrò modo e spazio per entrare nei particolari nei futuri lavori che usciranno grazie al progetto 7milamiglialontano, ma questo può già darci la tangibile idea di quanti risvolti possa avere un mare di serre dedite all’agricoltura intensiva.
Riprendiamo il mezzo a testa bassa e con in tasca la consapevolezza di aver avuto decisamente tanta fortuna nella vita, torniamo sulla strada e ci lasciamo alle spalle el mar de plastico e tutti i sui strascichi. Recuperati gli altri due componenti del gruppo puntiamo diretti verso il profondo sud europeo, la prossima tappa non sarà più in suolo ispanico.
Esiste ancora un ultima colonia in Europa, incredibile pensarlo sotto questo punto di vista ma appena attraversiamo il confine tra Spagna e Gibilterra, segnato da una linea immaginaria neanche troppo controllata, ci rendiamo subito conto di essere in un’altra nazione a tutti gli effetti. Certo è ovvio, è un altro paese ma ammetto che scavalcare una riga per terra e passare dalle tapas agli autobus rossi a due piani mi ha fatto non poco effetto.
Moneta, lingua, abitudini cambiano radicalmente e, pur essendo presenti tutte la contaminazioni culturali del caso, marcano una differenza netta tra i due territori. Arriviamo in terra inglese sul tardi, la giornata sta quasi per finire e ce ne accorgiamo subito quando proviamo a fare gli sfaticati tentando di prendere la funivia che avrebbe dovuto portarci in cima al promontorio simbolo di Gibilterra. Stavo quasi per accettare il fatto di non poter raggiungere il punto più alto di una delle due colonne d’Ercole quando Robi se ne esce con l’esatta frase che avrei voluto sentire in quel momento: “ragazzi io andrei su anche a piedi”! Non me lo sono fatto ripetere mezza volta in più e siamo partiti per la vetta del promontorio non sapendo se l’avremmo vista con un filo di luce o avremmo dovuto gattonare al buio tra rocce e scimmie.
Saliamo rapidi sapendo che quando raggiungi un luogo con fatica la soddisfazione come minimo raddoppia, un’ora scarsa di semicorsa in salita tra strada e sentierini in mezzo alla fitta vegetazione e siamo in cima. Più salivamo più si abbassava la luce a nostra disposizione regalandoci un tramonto in movimento indimenticabile. Abbiamo la fortuna di arrivarci con luce più bella che l’arco delle ventiquattro abbia da offrire, quella mezzora scarsa tra quando il sole scompare dietro l’orizzonte e il buio notturno, riesco anche a scorgere un gruppetto delle famose scimmie di Gibilterra, le uniche in stato di semiliberta dell’intero continente Europeo. Se ne stanno li appese ad uno strapiombo alto più di quattrocento metri appollaiate a godersi il tramonto esattamente come facciamo noi.
Lo spettacolo è ammaliante, le scie delle navi che attraversano lo stretto scintillano grazie alle ultime luci del giorno, l’Africa è talmente vicina che sembra possibile saltarci su con la stessa facilità con la quale si salta una pozzanghera, le nuvole infuocate dal sole del tramonto contrastano con le luci delle città sottostante, ci godiamo lo spettacolo increduli di essere arrivati in tempo e subito prima che la luce necessaria per scendere dalle rocce appuntite della vetta scompaia è già ora di rimetterci in cammino per tornare alla base del promontorio.
Raggiungiamo gli altri quando è già buio e li troviamo in attesa e sconvolti dal costo esorbitante di una birra media pagata meno della metà solo fino a qualche ora prima in suolo spagnolo, quella linea ha deciso che siamo in un’altra nazione amici, moneta e cambio compreso!
La nostra toccata e fuga nella zona di Gibilterra si conclude il giorno dopo con l’intervista ad Antonio Muñoz che, per l’associazione ambientalista “Ecologistas en Accion” ci spiega il catastrofico impatto che il traffico marittimo nello stretto di Gibilterra provoca agli ecosistemi locali. Da qui passa praticamente tutto il mondo navale conosciuto e dalle alghe infestanti scaricate dalle acque di sentina delle navi cinesi alle pm10 sparate fuori dagli scarichi delle grandi navi da crociera non si salva molto. L’associazione opera in tutta la Spagna e non hanno esitato a darci il loro apporto fondamentale per diffondere importanti tematiche ambientali. Ringrazio Antonio con affetto e gratitudine per la disponibilità dimostrata e ci avviamo lungo la costa verso Zahara de los Atunes, la capitale della pesca al tonno. A dir la verità la vera capitale della pesca al tonno è la città qualche chilometro più a nord, Barbate, ma qui sanno venderlo meglio e il nome è talmente invitante che non possiamo non fermarci a dare un’occhiata.
Passiamo una piacevole serata tra gustose tapas a tema e baretti tra i vicoli del piccolo paesello, ci prendiamo un attimo di pausa prima di ripartire verso Siviglia e le ultime tappe andaluse.
Il confine è ormai vicino e stavolta sarà un confine vero. I prossimi spostamenti ci vedranno ormai in suolo portoghese, la sua natura ancora incontaminata e le sue lunghe strade immerse nei boschi ci aspettano verdeggianti, incontri inaspettati e luminose visioni della natura non vedono l’ora di ammaliarci.
(segue)
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