diario di viaggio di Dario Nardi – prima puntata – Il progetto
foto di Dario Nardi, Giuliano Radici e Vincenzo Parisi
Non mi sono mai trovato a dover descrivere la partenza per un giro del mondo e credo che il modo più facile sia utilizzare un aggettivo unico: luminosa. Luminosa la giornata, luminosa l’espressione di chi sta dando il via a qualcosa di unico e luminoso è il primo team. La squadra ha già l’aria di avere tutto ciò che serve ad un ingranaggio per girare come si deve.
Per capacità o per esperienza ognuno sa già in che modo oliare il meccanismo. Giuliano, il capo progetto, esperto cacciatore d’immagini, vede, fotografa e provvede. Matteo da ottimo videomaker quale è infonde esperienza filmica e pensa a come far fruttare al meglio tutto il ben di dio tecnico che ci portiamo dietro. Roberto il driver, nonché militare esperto, ci delizia di tutto quell’aspetto della disciplina militare che, per natura, non sarei mai stato in grado di apprendere. Vincenzo, il nostro fotografo Ghirriano e translater francese, in tre giorni si è già beccato almeno 7 soprannomi. E poi ci sono io, biologo della spedizione: ricerca dei contatti e contenuti delle interviste, itinerario, supporto video e guida del drone sono compito mio.
Il primo giorno scorre tra l’incontenibile voglia di vedere cartelli con nomi di località sbarrate allontanarsi repentini e la solita certezza di aver dimenticato qualcosa a casa. Genova ci accoglie con la triste immagine del Morandi ancora in demolizione, oggi e chi sa per quanto tempo ancora. Città assurda Zena. In passato, a mio malgrado, avevo già avuto modo di viverla un po’ e ad uno sguardo come il mio che ignora quasi totalmente i suoi segreti e le sue bellezze, appare come un ammasso di palazzi che se ne frega del piano regolatore e segue più la logica di un pargolo che sta imparando a giocare con i primi lego. La inaspettata bellezza delle scogliere di levante ne riequilibrano poi il karma urbano, aspre e scomode come il carattere dei suoi abitanti.
Il professor Schiaparelli ci aspetta ai laboratori del Museo dell’Artico in futura riapertura, il vero cuore scientifico e pulsante di questo luogo. Dall’alto delle sue nove spedizioni in Antartide, decine e decine di pubblicazioni, collaborazioni nazionali ed internazionali e più di 50 immersioni a -1.8C (l’acqua salata fa cosi lassù), ci accoglie come vecchi amici. Ci racconta di quanto sia importante studiare luoghi così lontani per capire quanto sia dannoso e distruttivo quello che facciamo con spensieratezza a queste latitudini. Un ecosistema fragile che non ha bisogno di nulla, uno dei pochissimi luoghi sul pianeta a non aver ancora subito la colonizzazione totale da parte dell’uomo. Li la natura è ancora la più forte.
Oltre a laboratori, campioni genetici, microscopi, cappe, computer e tutto ciò che serve a fare della ricerca seria, il centro è pieno zeppo di reperti delle passate esplorazioni in Antartide. Tutto ciò che è stato riportato in Italia dalle spedizioni nazionali (e a volte anche internazionali), passa o è passato obbligatoriamente di qui. E’ cosi che mi ritrovo a maneggiare le imbragature in tela con le quali trainavano le slitte ad inizio novecento, piccole taniche arrugginite e tagliate per essere usate come pale, fornelletti ad olio che avevano letteralmente il potere di salvare vite e una montagna di vestiario tecnico che va dagli scarponi in grado di resistere fino a meno cento gradi alle mute stagne per chi avesse voglia di farsi una piacevole immersione sottozero.
Il professore è molto chiaro e poco sensazionalista: l’Antartide e suddivisa in zone geografiche ben distinte tra loro e non tutte risentono visivamente dell’impatto climatico a cui ci hanno abituato le catastrofiche immagini dei telegiornali, è assolutamente tutto vero ma ci spiega come ci siano moltissimi altri fattori che possono indicarci l’allarmante situazione nonostante il minor impatto mediatico. Una di questa è la variazione nelle popolazioni presenti sotto la superficie dell’acqua, la genetica ci da poi la giusta chiave di lettura.
Insieme a Genova salutiamo anche la madre patria. Il susseguirsi incalzante dei famosi caselli francesi lungo la Provençale ci da il caldo benvenuto, basta avere molte monetine in tasca. Nizza, la prima tappa francofona, ci accoglie in tempesta anche se gli abitanti ci tengono a precisare come siano passati almeno due mesi senza vedere una goccia d’acqua cadere dal cielo, non so se essere contrariato o essere felice per la risoluzione della siccità alla quale andavano incontro. Poco male, sarà un passaggio molto rapido e con un obiettivo ben preciso: conoscere e intervistare i fondatori di una associazione ambientalista chiamata Khaikai, nata dall’iniziativa di una coppia di biologi francesi che, approdati alle Hawaii per studio, hanno deciso di creare un’associazione di difesa e sensibilizzazione su tutto quello che riguarda la la salvaguardia degli oceani e la divulgazione scientifica delle tematiche legate ad essi. Ci facciamo raccontare di come siano riusciti a mettere in piedi una formidabile rete a livello globale composta dalle figure più disparate tra cui scienziati, studenti, politici, giornalisti, artisti ma anche pescatori, subacquei e surfer. La call rimane ancora aperta per chiunque avesse voglia di dare il suo contributo a questa sacrosanta causa.
La costa Francese scorre rapida tra la selvaggia Provenza e le bellezze della Camargue alla quale dedichiamo un’intera giornata. Come obiettivo non avremo ne le famose distese di lavanda (siamo decisamente fuori stagione) ne i suoi belli e massicci cavalli bianchi. Ci interessano le sue saline e più precisamente il rosa intenso de la Salin de Girard, un altro modo per raccontare il mare.
Il ritmo è veloce e incalzante, il lavoro è tanto e il tempo è poco. Il giorno seguente ci vede già diretti verso il suolo ispanico, finalmente.
Barcellona è la prima tappa della costa spagnola e oltre alla bellezza caotica della città stessa, avremo la fortuna di poter fare un’intervista ospiti di Miquel Rafa Fornieles alla Pedrera, edificio simbolo della città nonché perpetuo ricordo del grande Gaudi. Dentro è tutto un susseguirsi di muri informi e geometrie irregolari che trovano nella loro sregolatezza una sorprendente perfezione.
Miquel è un esperto del Fiume Ebro e di tutto quello che riguarda i suoi punti deboli, minacce e riqualificazioni. Il quadro che ci da del fiume più lungo d’Europa è quello di un gigante in degenza acciaccato da anni ed anni di non curanza, si è svolto un lavoro davvero titanico per risanarlo ma la strada è ancora lunga e le minacce alla sua integrità sono ancora troppe: centinaia di industrie lungo le sue rive, la mancanza d’acqua, le specie alloctone e gli scarichi urbani ne stanno minando seriamente la salute.
Seppur in recupero si è arrivati vicinissimi al collasso ecologico e solo grazie all’azione di associazioni come quella di cui è a capo Miquel, si sta cominciando a vedere la luce in fondo al tunnel.
Il discorso Ebro si completa poi il giorno seguente al museo “Monature Delta de l’Ebre” situato direttamente sul suo delta, duecento chilometri a sud di Barça. Bucolico luogo arricchito da infinite spiagge sabbiose che mi sorprendono per la loro estensione e la quasi totale mancanza di presenza umana. La bassa stagione continua a darci supporto.
Usciti dal delta continuiamo a puntare verso il profondo sud ispanico. L’intera Comunidad Valenciana e buona parte di quella Andalusa dell’est non la prenderebbe molto bene leggendo quello che sto per scrivere ma ciò che mi viene da riportare riguardo al resto della costa da Valencia in giù non è altro che un susseguirsi infinito di enormi casermoni cementificati devoti al dio denaro proveniente da un becero turismo di massa seriale incapace di comprendere quanto danno stia arrecando alla bellezza di una costa libera da tanto scempio.
Alveari anonimi che si accavallano l’uno sull’altro come fossero piante in una lotta continua per la di luce. Montagne intere sezionate per lasciare spazio a centinaia e centinaia di finestrelle alle quali mancano solo le inferriate e un colore meno sfavillante per sembrare dei perfetti penitenziari di massima sicurezza (e ho tralasciato le cinture di Orione). Superiamo relativamente rapidi questa zona per inoltrarci in quello che ritengo essere il punto di costa più bello di Spagna.
Erano anni che fremevo all’idea di tornare tra le soavi curve dell’immacolato parco naturale di Cabo de Gata, la prima volta che ho avuto la fortuna di metterci piede era ormai quasi dieci anni fa. Quattrocentosessanta chilometri quadrati di superficie terrestre e centoventi di area marina protetta ne fanno la riserva terrestre-marina più estesa del Mediterraneo occidentale.
Nonostante cotanta bellezza sono riusciti a piazzare giusto al suo ingresso la ormai tristemente famosa fabbrica di Carboneras. Un enorme complesso che a livello di inquinamento non si fa mancare nulla: Una fabbrica di cemento, una centrale termica a carbone, un inceneritore e due enormi porti industriali. Que màs?
Il parco naturale non ha smesso comunque di ammaliarmi ma mi sono sentito un po’ come quei vecchietti seduti su una sedia davanti all’uscio di casa che ti raccontano di quanto fosse migliore il mondo ai loro tempi. Certo, essendo parco naturale la legge ha bloccato l’edilizia scellerata vista solo qualche decina di chilometri prima ma rimane la forte sensazione che si stia a poco a poco perdendo quella genuinità che solo i posti poco conosciuti riescono a darti.
Il tutto me lo conferma Paco, il vecchio pescatore intervistato a la Islita del Moro che, dall’alto dei suoi 98 anni di salsedine, ci racconta come tutto piano piano stia cambiando forma nel nome del solito guadagno, il turismo ha infatti colpito anche da queste parti trasformando interi paeselli di pescatori in solidi fortini del booking.com.
Il viaggio prosegue lungo la costa verso Gibilterra, l’ultima vera colonia esistente in Europa. Non vedo l’ora di parlarvi di Almeria e del suo sterminato “mar de plastico”. Non vi anticipo nulla, vi dico solo che l’acqua questa volta c’entra relativamente poco ma si sa: tutto prima o poi arriva al grande blu.
(segue)
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