Piccoli mondi di ceramica, dai colori tenui e i contorni rotondeggianti; questo è il microcosmo fiabesco di Riccardo Biavati, artista contemporaneo che aprirà il suo atelier in occasione di CARDINI Atelier Aperti a Ferrara, sabato 23 marzo. In una delle strade più affascinanti della nostra città, via Brasavola, si nasconde lo spazio magico che ospita da quarant’anni la creatività di Biavati. Dalle gigantesche finestre, che danno sul giardinetto, si intravedono già i piccoli pezzi in lavorazione, ma solo entrando ci si rende conto della quantità di minuti universi contenuta nelle sale luminose dell’atelier. Occhietti tondi, visi sognanti, gufi, gatti, tutti i personaggi che abitano la creatività di Biavati. Li ricordo tutti, nella mia vecchia stanza, sulla cassettiera. I miei genitori, che furono allievi di Riccardo al Dosso Dossi, mi raccontavano bellissime fiabe inventate su di loro; e oggi mi ritrovo infine qui, dove nascono queste fiabe.
Tra un inebriante profumo di limone, barattoli pieni di polveri, ordinati sugli scaffali, e piccole ceramiche grezze, seduti davanti alla stufa come nelle fiabe, inizia il racconto di Riccardo.
Parlami del tuo immaginario: come nasce? Come si sviluppa questo tipo di creatività?
Il percorso della creatività non è facilmente spiegabile. Anche insegnando, è facile illustrare le tecniche ma quasi impossibile trasmettere le doti creative; si possono individuare e stimolare, ma non creare. La creatività è esperienza, sono i percorsi di vita, ciò che si legge, il proprio ambiente, è casualità. Se qualcuno riuscisse a spiegarmi come si fa a trasmetterla ne sarei contento! Fortunatamente ce n’è tanta in giro, spesso anche inespressa purtroppo, ma è una dote inspiegabile, è un innamoramento.
Le cose che faccio io sono frutto di una vita dedicata all’arte, alla ceramica, accompagnata da studi pittorici. Mi è stato detto che le mie opere raccontano; in effetti è ciò che intendo fare attraverso le mie ceramiche, che non sono legate ad uno studio della forma ma ad una narrazione. Tutto parte dal disegno, come il mio percorso formativo, per poi arrivare a raccontare, emozionare, senza essere troppo legati all’estetica.
Forse è proprio questo il segreto: un’opera che racconta ha davvero qualcosa da dire, un’emozione di trasmettere.
Raccontare non è l’unica maniera di esprimersi artisticamente ma io ho sempre coltivato un’espressività elementare, infantile, primitiva, anche attraverso i miei studi; non si tratta di oggetti criptici, nelle mie opere si possono trovare molti significati, come farebbe un bambino. C’è anche qualcosa di preistorico, qualche legame con l’arte popolare. Ma esistono anche ceramisti dalle notevoli capacità che non raccontano nulla; l’importante è capire bene cosa si vuole ottenere e in che modo. Io ho concluso attorno ai 30 anni la mia fase di ricerca ed è stato come aprire un baule pieno di oggetti e storie che volevano uscire.
Ho scelto la ceramica perché è facilmente plasmabile, e anche cancellabile; è giocosa e alchemica. Mi piace mescolare gli elementi per creare i colori.
Immagino dipenda molto dalle dimensioni, ma quanto tempo ci vuole per creare un oggetto?
Un piccolo pezzo può essere plasmato in un’ora ma poi seguono diverse fasi, dall’essiccazione alle cotture, la biscottatura e poi il colore. Per i passaggi successivi si possono impiegare anche 10 ore. Di certo non è come fare un disegno a china che è fatto e finito in poco tempo. Il forno è una macchina che dice la sua tra l’esecutore e il pezzo finale; il suo intervento va tenuto in considerazione. L’iter completo è costoso e complesso.
Raccontami il tuo rapporto con l’atelier.
Lo studio è parte della mia vita. Mi sento in obbligo di uscire di casa e venire qui, ne sento la necessità. Ma parlo dell’atelier in quanto luogo dedicato al lavoro in generale. Questo posto in particolare non ha mai influito nel processo creativo, se non fosse questo, il mio studio sarebbe un altro. Sono qui da 40 anni e mi va benissimo ma forse, potessi scegliere, preferirei uno studio con un grande spazio aperto adiacente, per cuocere all’esterno. Ad ogni modo è uno spazio che deve avere alcune caratteristiche specifiche: deve essere a piano terra, anche per questioni legali, per i forni molto pesanti, e poi deve essere luminoso. Gli studi rimangono comunque spazi desueti e affascinanti anche se non sono che luoghi di lavoro.
E con la città in generale? Che rapporto hai con Ferrara?
Ho studiato qui e mi trovo ancora qui ma nemmeno la città ha mai influito sulla mia creatività. Forse devo di più agli insegnanti che ho incontrato nel mio percorso di studi, al Dosso Dossi; ricordo che il preside Fioravanti all’epoca invitò alcuni ceramisti da Faenza perché tenessero qualche lezione, uno era Giovanni Gaddoni, e quello fu il mio primo approccio con la ceramica, che mi segnò profondamente. Forse senza quel primo laboratorio avrei preso un’altra strada, chissà; è stato come un imprinting.
Ferrara è una città che amo ad ogni modo. Poco tempo fa ho organizzato un banchetto estense perché l’altra mia grande passione è la cucina. Ceramica e cucina hanno molto in comune. Per la cena ho creato una serie di ceramiche per la tavola. Il banchetto estense è sicuramente un’idea molto ferrarese, nata perché concilia le mie passioni. In realtà, a Ferrara ci fu una preziosissima collezione di ceramiche graffite estensi che poi, però, scomparve con loro. Da allora la tradizione si è persa.
Mi incammino verso casa ripensando alle ceramiche da tavola e al banchetto estense di Riccardo. Io, che mi sono laureata con una tesi sull’utilizzo del cibo nell’arte contemporanea, non sapevo nulla di questo lavoro e non ho parlato di nessun artista ferrarese. Spero che qualche laureando prenoti un percorso di Cardini, e possa evitare di commettere il mio stesso errore.