Il tempo che passa distrugge, il mondo che resta dimentica (lo ammetto, l’espressione è liberamente estratta da uno vecchissimo striscione della curva sud dedicato a Pietro Paolo Virdis). In una società nella quale ci siamo ormai abituati alla manipolazione di ogni abitudine; nella quale il fascino del cinema si è spento in una galassia di cellulari sempre accesi in sala, e la gioia dello stadio si è sbriciolata in un infinito stillicidio di controlli che manco all’aeroporto di Gerusalemme, esiste – e resiste – un rito capace di farti sentire elegantemente fuori contesto senza mai essere fuori moda. Il teatro.
Come i giochi della Ravensburger, il gesto antico di oltrepassare l’ingresso, attraversare il foyer e guadagnare il proprio posto accomuna le persone curiose dai 9 ai 99 anni. E, se sei più vicino alla seconda soglia rispetto alla prima, a dispetto della carta d’identità, ti ritrovi ogni volta di colpo ripiombato ai 17: quando insieme a qualche compagno spendevi i tuoi pomeriggi assistendo agli spettacoli per le scuole, perché volevi sentirti più interessante dei tuoi coetanei, e magari fare colpo sulla biondina della 3C.
Stasera, accanto a te, c’è Micol. Ha 12 anni, suona il violino, è una appassionata lettrice di libri gialli, e per la prima volta nella sua vita si trova nella platea di un teatro per assistere a uno spettacolo di prosa. Subito dietro sono seduti Marco e Renata: fanno l’abbonamento, ininterrottamente, da quasi 30 anni; ogni stagione sentenziano che sarà l’ultima, che non ci sono più le pièce di una volta, ma poi non resistono al richiamo del palco.
Questa sensazione di aver sconfitto il tempo si conferma quando, oscurata la platea e alzato in sipario, va in scena un grande classico; ovvero un’opera, come ammoniva Italo Calvino, che non smette mai di dire ciò che ha da dire. Miss Marple. Giochi di prestigio, il quinto dei 12 romanzi scritti da Agatha Christie con protagonista l’affilata vecchietta Jane Marple, criminologa dilettante. Uno dei personaggi più riletti e interpretati nella storia della narrativa mondiale, capace di attraversare le barriere tra le arti: dalla letteratura al cinema alla televisione, quindi al teatro. Un testo che parla di dissimulazione, e che ci induce a immaginare la scena del delitto come un palcoscenico. O viceversa.
E proprio al Claudio Abbado di Ferrara si accende l’ennesima magia, fatta di tanti tasselli che si incastrano perfettamente. Il testo, sopra a tutto. Calibratissimo nei tempi scenici, nell’alternanza dei registri, nell’incastro dei particolari, anche grazie al sapiente adattamento di Edoardo Erba. La mise en scene, in secondo luogo. Spettrale, sinistra, torbida, con quella imponente struttura in ghisa fumo di Londra avvolta da una nebbia densa, delizioso effetto speciale all’antica. Uno spazio scenico classico con rivisitazioni contemporanee (diremmo se stessimo giudicando la cucina di una trattoria gourmet). Infine la recitazione. Forse non convince pienamente la Marple di Maria Amelia Monti: cinica, pettegola, sarcastica, quasi macchiettistica nell’enfatizzazione dei piccoli vizi come alzare il gomito; insomma, un po’ Mary Poppins e un po’ Sandra Mondaini. Ma accanto a lei trafigge il dosato equilibrio di Roberto Citran, e in generale la capacità degli attori di muoversi tutti insieme, come un’orchestra, sul palco.
Alla fine (soprattutto se c’è di mezzo Agatha Christie) funziona sempre così: tutti in platea a spergiurare che noi sì, chi era il colpevole, l’avevamo capito già all’inizio del secondo atto, perché era chiaro e cristallino. Quindi tutti a recuperare il capospalla, tronfi della nostra perspicacia, e a darci appuntamento al prossimo spettacolo in calendario, per rivivere l’emozione di fermare il tempo.
Ma io chi è il colpevole non posso rivelarlo. Una volta un giornalista l’ha fatto…e poi è morto! [finale a effetto, prescritto solo per chi ha già visto lo spettacolo]