Il pomeriggio del primo giorno di primavera, poco prima di Cardini Atelier aperti, l’evento che aprirà per la prima volta le porte degli atelier di oltre venti artisti ferraresi, andiamo in anteprima a curiosare in quello di Luca Zarattini. Luca ha lo studio in un piccolo, vecchio magazzino dove prima venivano costruite e fabbricate biciclette, infatti sul soffitto ci sono una serie di tubi e ganci dove probabilmente venivano lasciate le biciclette in attesa di essere trasformate… ora però è un vero è proprio spazio artistico: oltre ad esserci due grandi tele, ci sono vecchi abiti “da pittore”, disegni e fogli sparsi qua là, vari libri, altri dipinti appesi, uno stereo e tanti dischi; nell’aria aleggiano le note di una canzone d’altri tempi.
Chi è Luca Zarattini? Quale è stato il tuo primo approccio con l’arte e quando hai capito che sarebbe stata la tua strada?
Tutto è nato in maniera molto naturale, fin da piccolino ho sempre avuto l’esigenza del disegno, ma anche della musica e delle arti in generale. Mio padre è musicista, perciò sono sempre stato circondato da qualcosa di artistico, io e mio fratello siamo cresciuti ascoltando le sue note… Una cosa curiosa è che alle medie il docente di educazione artistica mi aveva sconsigliato di continuare gli studi nel campo delle arti visive, però io sono un testardo perciò ho pensato: “Grazie, quindi lo posso fare!”. Perciò ho frequentato il liceo artistico “Dosso Dossi”, indirizzo decorazione plastica, e successivamente mi sono iscritto al corso di pittura dell’Accademia di Belle arti di Bologna. Con l’ingresso in Accademia ho incominciato a dipingere, a capire come funzionava il sistema e che ogni artista deve trovare una propria cifra stilistica, ma soprattutto ho capito cosa dovevo cercare: nasce qui la mia ricerca artistica. Ad oggi compio 15 anni di ricerca e di studi all’interno del ramo pittorico.
Tornando invece alla mia passione per la musica, suono anche la chitarra in un gruppo che si chiama Modotti. Insomma, il mio percorso si è auto costruito. Poi non mi piace molto parlare, credo che un’immagine valga più di mille parole, cerco un modo diverso di comunicare che si svincoli dalla necessità di un significato dato dalla parola. Ciò non toglie l’importanza che la parola e il suono che la contiene abbia in me.
Che cos’è per te questo spazio, il tuo studio?
Sono qui da poco in realtà, prima avevo uno studio a Comacchio, il mio paese d’origine, poi ho trovato questo spazio a Ferrara e mi son trasferito a luglio dell’anno scorso. Mi sono ambientato subito, il centro storico è meraviglioso. Per me uno spazio personale come lo studio è davvero molto importante perché, anche se mi ripeto e non mi stancherò mai di dirlo, questo è l’unico modo che ho di poter dar forma concreta al tempo. Ogni tanto mi fermo e mi sembra che il tempo non passi mai, sono convinto ad esempio di avere sempre 28 anni, mentre invece ne ho già 34. Quindi con il mio studio riesco a dare una forma visiva al tempo che passa, è un luogo sacro per me! Qua dentro poi unisco sempre le mie due passioni: l’arte e la musica. Ascolto ogni genere musicale, e mi comporto così anche con i miei quadri dove dentro metto di tutto… Questa è un pò l’idea che ho della vita, ritengo infatti che, soprattutto in questo periodo storico di “meticciaggio” culturale e intellettuale, l’artista debba essere aperto a diversi tipi di linguaggi.
Le tue opere quindi come nascono e cosa cercano di comunicare?
Riassumere anni di ricerca non è così semplice, ad ogni modo ho sempre avuto un approccio molto materico con la pittura. Le prime serie di dipinti che feci erano lastre di ferro che dipingevo e che poi trattavo con alcuni sverniciatori, per andare poi ad innaffiare come se fossero piante; quindi poi la ruggine si fondeva con la pittura per dimostrare l’intervento della natura sull’uomo e viceversa.
Poi ho lavorato sul tema del ritratto, un ritratto particolare, che perdeva la propria fisionomia per diventare un’essenza di qualcos’altro, a ricordare anche i ritratti del Fayyum. Il tema era sempre quello del tempo, ma anche il rapporto tra la finzione e la realtà, erano ritratti nuovi che sembravano però venir fuori da scavi archeologici.
Dopodiché, siccome la vita mi ha portato a fare anche altri tipi di lavoro, nella fabbrica di produzione alimentare dove lavoravo c’erano questi foglietti di plastica che dipingevo e poi bruciavo con la fiamma ossidrica per creare varie forme, il tutto mescolato con l’olio. Sempre sul tema del tempo ho lavorato su tavola creando ritratti enormi come fossero una sorta di affresco rotto, l’immagine quindi prendeva forma da una destrutturazione dell’immagine stessa. Oggi sto cercando di disimparare tutto quello che ho imparato per ricercare una lingua estremamente personale, perché è fondamentale che qualcuno riesca a riconoscere te fra cento immagini di cento persone differenti, però per arrivare a questo è necessaria una vita di studio.
Quale delle tue opere ti emoziona di più? Come definiresti la tua arte?
Dico sempre che l’opera che mi emoziona di più è l’ultima, l’ultima immagine che ho in mente. Per quanto riguarda la definizione della mia arte tendenzialmente non amo tanto definirmi, diciamo che mi lascio definire, non ho un ego così spiccato…
Dipingi tutti i giorni? Ti è mai capitato un periodo in cui non hai dipinto?
Si, tutti i giorni dipingo. Capita qualche giorno in cui sono un pò più scarico, però tendo sempre a dedicare tempo a produrre, e se non mi dedico alla pittura, disegno. Questi disegni che ho qui in studio, ad esempio, mostrano persone che indossano maschere, ma senza il viso sotto. Sono convinto che tutto nasca dal disegno, credo che sia indispensabile per capire le cose. A volte poi se non sono ispirato leggo. Può succedere, è una guerriglia interna, una lotta con i propri demoni, a volte anche lavori interi vengono buttati. In ciò che faccio cerco sempre il “duende” di Federico Garcìa Lorca, ovvero quell’energia particolare, potentissima, che fuoriesce nel momento in cui si compie l’azione, un’energia in grado di far dimenticare persino chi si è.
Sei contento di far parte del gruppo di artisti che partecipa a questa prima edizione di Cardini Atelier aperti?
Sono estremamente contento di aprire la porta al mio studio, quando si aprono le porte è sempre un gesto rivoluzionario e potente, in senso positivo. Ogni forma di arte è un momento di dialogo e condivisione con l’altro diverso da sé, di conseguenza questo è un gesto di apertura verso il mondo ed è assolutamente positivo.
Cosa consiglieresti ai ragazzi che vorrebbero intraprendere una carriera artistica nel campo delle arti visive?
Credo che sia fondamentale lavorare sempre con tanta costanza, dedizione. L’artista deve essere una persona seria, va bene fare molte esperienze, divertirsi la sera, però alla mattina bisogna mettersi sotto… inoltre consiglio tanto studio, passione e curiosità. Però è importante anche avere qualcosa da dire perché la tecnica e il talento da soli non portano a nulla.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Ora sto lavorando ad alcune opere che esporrò alla prossima mostra che si chiamerà “Composizioni da scomposizioni”, e che sarà curata da Michele Ainis. La mostra inaugurerà il 16 aprile alla Galleria “RVB Arts” a Roma e durerà fino al 12 maggio. Per questo progetto sto lavorando in questo modo: mi preparo dei blocchetti di carta che dipingo o disegno finché non arrivo ad avere un bel malloppo di carte, così decido di comporre l’immagine, ricompongo sulla tela, in un preciso istante, poi vedo cosa mi suggerisce il caso. È la pittura che mi suggerisce delle forme, è lei che mi guida, ed è un esplosione di energia. Il tema è “la natura e gli animali”, infatti in una tela compare una pianta, in una un cavallo girato di spalle e in un’altra ancora un gatto che non si capisce se stia stirando o sia infastidito da qualcosa. Sono sempre alla ricerca della bellezza, la poetessa Mariangela Gualtieri ha definito il fare arte come il “creare la bellezza partendo da una sofferenza”, ed io non posso che abbracciare queste parole.