Chiunque abbia visto “The Privileged” nel corso delle tre performance andate in scena a Ferrara Off, potrebbe scrivere un report diverso. Ogni gruppo poi, quaranta persone in questo caso, può raccontare senza ombra di dubbio un intreccio differente, una storia diversa, una dinamica non affrontata dagli altri. D’altra parte uno storico critico italiano ha definito il teatro come “la comunione d’un pubblico con uno spettacolo vivente”.
Questo è “The Privileged”. Un teatro silenzioso. Sedie in cerchio, quaranta persone. Alcune buste, numerate e chiuse, appoggiate su sedie alterne. Al centro, leggermente spostato, un orso polare. Un costume certo, ma vivo, un attore sotto lo anima secondo un codice preciso che viene man mano scoperto. L’attore diventa l’orso, anche se con il tempo l’orso diventa attore. Non c’è sceneggiatura, scaletta, non esiste nemmeno un tempo definito: la performance inizia quando inizia l’interazione del gruppo, finisce quando il gruppo esce dalla stanza. È sicuramente una esperienza straniante.
C’è una grande differenza tra mettersi in gioco ed aprire la mente ad uno spettacolo fruito passivamente o al massimo che richieda empatia, risate, lacrime, sentimenti che vengono da una visione confezionata e assorbita. In questo invece lo spettacolo di Jamal Harewood, artista inglese che cerca di abbattere il canovaccio di relazione tra pubblico e autore, si muove su contorni via via sempre più fisici, che impattano sullo spettatore. Lo spettatore osserva, lo spettatore legge, lo spettatore discute, interagisce, gioca, spoglia, appoggia le mani sulla creatura teatrale. Ne percepisce il sudore, anzi lo tocca. Il gruppo di sconosciuti si delinea, ragiona, si divide, decide, si immedesima, viene privato dei suoi averi e costretto a mettersi in gioco. Infine mette in campo pensieri e sentimenti tra i più disparati: paura, violenza, vicinanza, stupore.
Ancora più straniante è la capacità di assorbimento di una performance in questa epoca storica: obbligato il gruppo man mano a divenire una entità unica (o divisa, perché no) ci si spoglia dei propri ancoraggi (smartphone, pensieri, distrazioni) e ci si immerge in qualcosa che riporta in realtà alle nostre radici: una natura forse amichevole forse ostile, una dinamica sociale da capire. Un confronto con noi stessi: siamo quelli che nei primi minuti accarezzano, abbracciano, coccolano l’orso o siamo quelli feroci, spietati, aggressivi umani pronti a trincerarci nella forza dell’essere insieme? Finita la performance c’è un momento di discussione, che dura quasi un’ora. Spontanea, ancora una volta senza copione nè guida.
Due voci raccontano di un pensiero: “non lo voglio fare” e di una difficoltà “me lo stanno chiedendo, devo mettere le mie mani su questa pelliccia, sento che devo farlo” che è specchio dei tanti momenti in cui l’umanità ha compiuto scelte coscientemente sbagliate, eppure seguite senza quasi dubbio alcuno.
Cos’è allora “The Privileged”? E chi, il privilegiato del titolo? Probabilmente il titolo è rivolto al pubblico. Perché il pubblico ha una scelta. Non l’orso, non l’attore, paralleli nel loro essere vittima di quello che succede (non è il contrario, bisogna capirlo) vittima del pubblico, di una traccia che è la voce narrante sconosciuta che diventa verbo e azione del pubblico. Il pubblico ha una scelta, fondamentalmente morale: scegliere fino a che punto, qual è il preciso istante in cui la moralità, l’identità culturale e umana prende il sopravvento.
Banalizzando: fino a che punto siamo buoni, invece di forti.
È facile rivedere nell’orso, pieno di vita ma privo di libertà e potere, la metafora del naufrago. Del malato. Del disperato, del dipendente, del povero, dello straniero. È facile (ed è uscito nella discussione) pensare ai migranti, ai nazisti, ai gruppi più feroci. A posteriori è facile capire che “The Privileged” è una performance sulla prevaricazione e sulla libertà, un luogo sicuro (come oggi vanno di moda le escape room) dove scoprire la propria natura di essere umani.
Nel caso della nostra performance, la frattura, a maggioranza non così ampia, è avvenuta alla busta sette. Sette e qualcosa, a dire la verità. Non siamo stati così forti (o meglio, così deboli) da aumentare il grado di coinvolgimento. Siamo rimasti a lungo, forse quasi sessanta minuti (il tempo si era dilatato, pareva non passare mai e invece siamo rimasti chiusi quasi due ore) incerti, prima di uscire, a piccoli gruppi dalla sala. Con quella sensazione che mancasse qualcosa, che volessimo (e dovessimo) avere un finale.
Che il gioco fosse svelato e invece non è successo. L’orso c’era, prima di noi. C’era, dopo di noi. Illeso, ma sudato. Ferito nella fiducia, sfigurato nei piedi, ansimante e solo, creatura che a noi ha detto molto e che forse ancora di più ha detto all’autore del progetto, indagatore dell’animo umano, qualcosa su chi siamo.
Lo abbiamo lasciato, inerte e spaventato. Siamo usciti, confusi e disorientati. Il giorno dopo, ancora aleggia incerta nell’aria la domanda: “abbiamo fatto quello che era giusto fare?”.
INFO: https://harewooo.com/the-privileged/
5 commenti
Ho assistito alla replica di sabato a Ferrara Off. Forse sono stato solo sfortunato, ma di certo sabato il performer non è stato affatto in grado di relazionarsi con il pubblico. Non è successo praticamente nulla. Non ha smosso proprio nulla, nessuna domanda. Ha reagito inoltre in modo scoordinato, anche fisicamente, visto che qualcuno si è pure fatto male in conseguenza del suo atteggiamento di rifiuto. Un occasione mancata, un fiasco, oserei dire. Spero che il performer faccia tesoro di questa serata storta.
Ciao,
Sono Alessio, l’autore dell’articolo. Ovviamente, più che mai, le sensazioni su questo spettacolo sono soggettive. Eravamo alla stessa sera, quindi è la dimostrazione che abbiamo avuto pareri diversi, ed è esattamente segnato nelle prime righe del testo.
Credo che ci stia: nel corso delle repliche qualcuno rimane indifferente, qualcuno si arrabbia, qualcuno piange.
Non credo, ecco, che sia stata una serata storta: non essendoci una sceneggiatura, non può andare male, anche se forse certe direzioni prese possono fare stare male.
Mi viene in mente di consigliarti, se hai piacere questa trasmissione sulla web radio dove ho un programma di musica, hanno fatto una puntata di un’ora sullo spettacolo, c’era una persona che era con me la stessa sera tua, il sabato, e altri che sono andati alla domenica. https://www.spreaker.com/user/9964856/pop-puntata
Ma ripeto: credo che ogni replica susciti sensazioni diverse in ogni persona del pubblico, che sia giusto provare qualsiasi emozione (compresa l’indifferenza) e in fondo, se ti ha fatto arrivare qui a scrivere un commento, ha lasciato almeno quel desiderio che andasse tutto diversamente: magari anche quello sarebbe un risultato, per il performer.
Quando vado a teatro, o al cinema, o assisto o vedo un’opera d’arte, spero che quell’opera mi lasci qualcosa, mi cambi. Come artista vorrei che le mie opere lasciassero qualcosa a chi le vede. Se non lascio niente vuol dire che quella sera ho fallito. Può capitare. Ecco, sabato sera io (come tanti altri) sono uscito così come sono entrato, solo con un po’ di fastidio per la serata persa. E per una mano dolorante.
Comunque grazie per la risposta! Ora mi ascolto il programma.
Sempre a disposizione per i confronti 🙂