Quando la gente ha fame e non ha quasi più nulla da mangiare non è più in grado di ragionare, giustificando anche l’illecito commesso da chi si trova in quella situazione. Il fatto di macchiare l’onore per soddisfare la prima necessità di vita non è nemmeno preso in considerazione.
Ferrara Aprile 1945, la città è allo stremo. Nel Quartiere Giardino ci sono macerie in ogni via, in certi tratti si stenta perfino a ricordare cosa c’era prima. Qualche bottega apre qualche ora di un giorno che non sai mai come sarà, per vendere quasi nulla perché effettivamente non c’è nulla. Onore a quei commercianti che mettevano da parte qualcosa per le famiglie con bambini.
Siamo in pochi. Le case al posto dei vetri rotti hanno pannelli di faesite, ci si fa luce con lampade a petrolio o a carburo, oppure con le classiche candele fatte col grasso di cavallo che sono gialle e puzzano di sego. Ci si incontra ogni tanto, il saluto consiste in una reciproca occhiata impaurita dal basso verso l’alto perché abbiamo lo sguardo costantemente rivolto a terra. Perché siamo a terra, avviliti e stanchi… non ne possiamo più.
Sentiamo il rombo dei cannoni, sembra un temporale lontano. Pensiamo che se siamo arrivati fino qui… passerà pure questa e poi sarà finita, ma riusciremo a passarla?
Abbiamo svuotato le cantine per far posto ai letti che trasferiamo e sistemiamo al meglio negli angusti spazi. Anche altre persone, pur non abitando nel nostro palazzo, sono ospitate nei sotterranei. Come riparo per le bombe d’aereo erano da escludere assolutamente, come purtroppo abbiamo visto in qualche caso, ma quello offerto per le granate ritenemmo fosse un rifugio abbastanza valido, a meno che un proiettile a fine traiettoria non entrasse da una delle finestrelle orizzontali rasoterra che danno luce e aria.
Il giorno seguente il tuono si fa più vigoroso e sulla città piovono le prime granate un poco dappertutto. I loro sibili seguiti dalle esplosioni ci fanno paura. Gli alleati stanno avanzando, è l’ultimo atto, è l’inizio della fine, forse potrebbe essere la fine anche per qualcuno di noi, ma non ci vogliamo pensare. Non abbiamo quasi più nulla da mangiare. Ci dividiamo quello che abbiamo, ma le scorte sono ormai alla fine. Le previsioni non ci incoraggiano, a meno che “quelli” non facciano molto presto.
Nel pomeriggio del giorno seguente arriva una voce che ci sorprende non poco:
Gente! I magazzini del Consorzio in via Darsena sono aperti… hanno sfondato i cancelli e la gente va a prendersi ogni cosa… a ghe ad tut!
È un plebiscito: “Andiamo anche noi… forza, perché qui non abbiamo più nulla… an gaven più nient da magnar! Anden… si no an as vanza più gnent!”. Ecco che il detto che “la fame fa uscire il lupo dal bosco” diviene realtà.
Ci ritroviamo tutti sparpagliati per le strade che corriamo nella stessa direzione, seguendo l’itinerario più breve: Via Fiume, Via Pasubio (dove c’era la fabbrica del ghiaccio), lasciando a destra l’Acquedotto ci buttiamo per le parallele che sboccano di fronte al ponte dell’Impero, poi a destra per via Darsena, ed ecco dopo la Riseria all’angolo (ora c’è la Farmacia Giardino e l’Hotel Orologio), ci sono i capannoni affiancati del Consorzio Agrario, davanti ai quali c’è un andirivieni di persone, entrano ed escono frettolosamente con sacchi sulle spalle, su carriole e sui rimorchietti fatti con le ruote di bicicletta.
Sopra la testa sibilano le granate che esplodono nella parte Nord della città. Sembra la festa del Patrono! Qualcuno fa pure dello spirito, “Fra du dì l’è San Zorz, i’è bela dre far festa!”
Raccontando questo episodio mi rivedo in quella situazione altamente rischiosa, e ricordo di non aver avuto paura… come nessuno del resto! Entriamo nei magazzini, ci sono montagne di sacchi di derrate alimentari, tutti di grossa pezzatura. Impossibile portarli a casa. Ma in tempi di guerra l’impossibile non esiste. Un tizio tira fuori di tasca una ronchina e taglia la pancia a un sacco di riso. La metà di sopra va perduto sul pavimento ma la parte sottostante no. Riallaccia la bocca del sacco e lo porge al primo che ha davanti. Metodi spicci. Questa procedura è l’unica che ci consente di appropriarci di qualcosa: piselli secchi, fagioli, farina bianca e gialla e tutto quello che ci è possibile arraffare.
Ad un tratto un grappolo di scoppi terribili ci richiama alla realtà, tremano i lamieroni delle porte scorrevoli, i telai delle finestrature, sembra che ci stia crollando tutto quanto addosso… tra l’odore della farina si sentono anche quelli di polvere da sparo e della calce. Infatti all’uscita ci rendiamo conte che un pezzo della palazzina uffici non esiste più. Improvvisamente sentiamo il motore di un camion che si avvicina. È un Opel Blitz tedesco che con alcuni militari ha caricato dei sacchi. Sul predellino c’è un graduato con la pistola in mano che ci impone di fare largo e di andarcene. Il camion si ferma, lui scende dal predellino e si avvicina a noi con l’arma che gli serve come indicatore. Ci fa cenno di andarcene biascicando qualcosa di incomprensibile. Noi ci fermiamo ma non ce ne andiamo. Il tedesco si altera, tuona un “Raus” e con la pistola indica l’uscita. Allora tre dei nostri gli si fanno incontro con calma e sorridendo gli dicono di smetterla perché ormai tutto è finito. “Prendi quello che hai arraffato e vattene prima che sia tardi – gli gridano – tanto chi ti fermerà per sempre e là che ti aspetta… è il Po, che non riuscirai ad attraversare! Il tuo camion carico di kartoffel e fagioli dovrai abbandonarlo. Metti via quella P38 che non ti serve più, vattene a casa se ci riesci.”
Ammutoliti ascoltavamo e non avremmo mai creduto che finisse così, ci aspettavamo una reazione, forse uno scontro che sicuramente sarebbe finito male per noi. Il tedesco, non intimorito ma che certo realizzava la fine del conflitto, rinfoderò la pistola e salì sul camion che partì immediatamente imboccando l’uscita, lasciandoci per ricordo una nube puzzolente di fumo azzurro.
Poiché la mie forze non erano all’altezza mi affidarono una botticella, alta circa un metro, da portare verso casa. Speravamo tutti che si trattasse di vino, (poteva però essere anche aceto). Era sigillata con la ceralacca e aveva sui fondelli delle sigle incomprensibili fatte con il gesso. Dovevo rotolarla fino a destinazione e ci provai in ogni modo. Ritornammo verso casa percorrendo a ritroso il percorso, di corsa e sempre con le granate che ci passavano sopra la testa e il fragore degli scoppi, alcuni lontani, alcuni meno. Facevo una grande fatica a governare la botte, perché le asperità le facevano cambiare spesso direzione.
Infine rientriamo nelle cantine del palazzo e da buoni fratelli cominciamo le spartizioni per famiglia. È vero, abbiamo qualcosa di nuovo da mangiare, ma più o meno la quota spettante si riduce a qualche scatola di pelati, alcune altre di tonno, un sacchettino di fagioli, uno di piselli secchi e un poco di riso. Le farine non sono molte, le donne pensano, a ragion veduta, di fare una polenta abbastanza grande per poi dividere quella, magari un “pinzone” con qualche fagiolo e qualche cubetto di pancetta sbucata da chissà dove. Guardandoci in faccia non avevamo il coraggio di riconoscere che forse non valeva la pena rischiare la pelle per quei pochi barattoli, ma ormai era andata così.
La botticella a questo punto divenne l’oggetto principale delle nostre attenzioni. Cosa conteneva? Venne disposta su due sedie legate a cavalletto e adagiata in orizzontale come fosse in cantina… in effetti ci trovavamo proprio lì! Con una gomma iniziammo a tirare dal tappo di mezzo per riempire una caraffa. Era vino! Con aria da intenditore, uno dei vicini cominciò ad annusare e a roteare il contenitore più volte per decantarne gli aromi. “Ma basta! – gli disse allora un altro – Dam in za c’la broca… fam sintir cal vin! E lassa lì ad far d’la scena…!” Rotti gli indugi, assaggiammo il vino che ci parve davvero buonissimo. Con la calma di chi se ne intendeva il vicino sentenziò che si trattava di “Vino di Bosco” di ottima qualità.
Il mattino seguente trovammo tutte le vie, deserte fino alla sera precedente, piene di mezzi militari in sosta su ambo i lati e di tantissimi soldati vocianti, che parlavano una lingua sconosciuta.
Quando negli Anni ’60/’70 venivo a Ferrara dai miei genitori, mio papà mi faceva sempre dono di alcune bottiglie di Vino di Bosco, di quelle nere con il tappo legato con lo spago, che comprava in una Cantina di Volano. A tavola quando ne gustavamo un bicchiere spesso diceva: “T’arcordat… la zò in cantina, sota a il granad c’la budgina che t’ha ruzlà fin a cà? Eco, l’è bon queschì era? Quel là a gliera ancora mei… t’arcordat…?”.
5 commenti
brividi, un racconto da pelle d’oca.
Chissà se in questo episodio era presente anche Bruno Garbo (un ragazzo ventenne, abitava nei pressi del ponte di via Modena, aveva diversi fratelli, poi negli anni successivi si trasferì a Bologna) molti tanti anni fa mi raccontava di quelle giornate così movimentate. Un saluto
Si… davvero momenti di grande pericolo, ma pieni di un grandissimo desiderio di vita. Avevamo dimenticato come era la vota normale, credevamo non ritornasse più. Grazie per la partecipazione.
Salve Florio, i suoi racconti sono sempre emozionanti.
Grazie!
Io allora avevo 10 anni, abitavamo in zona S. Maria in Vado. Questo episodio non lo ricordo. La fame si. Ricordo che dopo i bombardamenti degli zuccherifici c’era la corsa a raccogliere melassa nei fossi. Ci andavano anche i miei fratelli maggiori. Quella brodaglia scura, dopo bollitura e decantazione, era una dolcissima delizia. Complimenti Florio e grazie per la Storia Patria.
Quando si dice che in un racconto c’è l’anima. Complimenti signor Florio per la sua lucidità e grazie per condividere queste sue testimonianze di vita con noi.