Pueblo in una delle sue accezioni spagnole indica un insieme di persone comuni e umili, quello che normalmente tradurremmo come popolo. I Pueblo invece sono una nazione di nativi americani, probabilmente meno conosciuta dei Comanche o degli Apache, che nel 1680 si ribella agli spagnoli cullando per dodici anni la speranza di vivere liberi dal giogo coloniale. Ascanio Celestini è in scena, proprio in questi giorni, al Teatro Comunale di Ferrara con Pueblo, ideale prosecuzione di Laika, primo spettacolo di una trilogia che vedrà la sua conclusione con una pièce dal probabile titolo I Draghi. Accompagnato dalle musiche di Gianluca Casadei e dalla voce fuori campo del figlio Ettore, Celestini racconta degli ultimi, di coloro di cui non si parla, che compaiono nelle notizie di cronaca in casi sporadici e particolarmente gravi. Sono coloro di cui anche la storia si dimentica impegnata com’è nel cercare di raccontare i trattati, le guerre e le rivoluzioni dimenticandosi spesso di chi queste cose le fa e le subisce. Non è un caso se l’idea da cui prendono corpo questi spettacoli è completamente slegata da essi, in diverse interviste infatti Celestini ricorda che il suo intento iniziale era quello di fare uno spettacolo sul bombardamento di Guernica del 1937. “Però – dice – più leggevo e lavoravo su quelle storie e più pensavo che non trovavo un legame profondo con esse, avrei potuto fare una buona lezione di storia ma, a mio parere, il teatro non è un luogo in cui fare lezione. Questa storia è quindi cambiata completamente e sono arrivato a parlare di una periferia qualunque di una qualsiasi città”.
Dice, Celestini, di non voler fare una lezione di storia ma in fondo la fa perché parlare di barboni, cassiere, facchini, zingari e negri è una lezione di storia. Una storia anticonvenzionale (e politicamente scorretta) che esce dai canoni a cui si è abituati e che cerca il suo essere nelle piccole cose, nel quotidiano di persone invisibili. In Pueblo prendono vita le periferie di Roma ma Largo Spartaco al Quadraro è solo un esempio di mille che potrebbero essere in tantissime altre città, è però quello che Celestini conosce e può raccontare. Violetta, Said e Domenica, la barbona che non chiede l’elemosina, potrebbero avere altri nomi, altre vite ma si potrebbero incontrare nella periferia di Ferrara come in quella di Milano o Londra. Sono le persone invisibili, quelle che si evitano con lo sguardo perché puzzano, ricordano la miseria, fanno stare male. E’ un atteggiamento culturale che ormai contraddistingue l’occidente troppo abituato a guardare un mondo patinato senza la capacità e la volontà di vedere. L’attore e autore di Pueblo invece mostra queste storie come un poeta che si interessa alla vita degli altri per immaginarsela, per approfondirla senza limitarsi al superfluo ma raccontandola partendo dalle piccole cose che possono accadere in un giorno di pioggia.
Il titolo con cui Celestini ha provato in vari contesti la prima versione studio di questo spettacolo era Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo?. Come si scriveva all’inizio questo popolo è poco conosciuto eppure ha fatto una delle più grandi rivolte indigene in America nella speranza di liberarsi del giogo spagnolo. Anche loro si possono considerare come ultimi, dimenticati dai manuali di storia e anche dalla cinematografia che, per lungo tempo, ha contribuito a coprire con un velo le evidenti colpe che la colonizzazione ha avuto nei confronti dei nativi. Anche oggi come allora la società evita i problemi e la loro complessità, guarda di spalle i morti nel mediterraneo e i barboni che dormono all’addiaccio in una notte d’inverno rinchiudendosi, come direbbe Marcuse, nella sua “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà”.
“C’è un momento – scrive Andrea Porcheddu su Gli Stati Generali – in cui ho sentito, o forse intuito, o forse ancora creduto di capire, cosa c’è che mi commuove nei lavori recenti di Ascanio Celestini, prima in Laika ora in Pueblo. È una sensazione sfuggente, non legata a una scena specifica, anzi che passa come un soffio ma tocca corde profonde. […] Ed è il fatto che Celestini, in questi ultimi lavori, si ostina a parlare di speranza di quelli che non hanno speranza. Dell’ostinata, umana, faticosa ricerca di una briciola di felicità, di benessere, di gioia in chi proprio non ha più nulla, in chi è ai margini e dovrebbe aver, da tempo, rinunciato a tutto.”
Celestini in Pueblo riesce a toccare l’animo dello spettatore perché non parla dei protagonisti della sua pièce come altri da sé, c’è tra loro un contatto profondo e riesce così a trovare le connessioni che rendono partecipe la platea. La speranza di cui scrive Porcheddu si trasforma così nella speranza dello spettatore stesso che attraverso la mediazione teatrale prova quell’empatia necessaria a stralciare il velo che più o meno inconsapevolmente copre gli occhi di tutti noi.