Solitamente in un concerto svolto a teatro o dove vi siano comunque dei posti seduti vi è una certa distanza percepita tra artista e pubblico. Non è necessariamente un elemento negativo, anzi consente una visione più rilassata ed estatica, meno fisica e maggiormente emozionale. Non si presta ad una band che vi vuole far ballare ma se ad esempio parliamo di un cantautore può essere un valore aggiunto.
Eppure la sensazione dominante di questo concerto di Scott Matthew, quarto appuntamento della rassegna Reazione K Volume 2, interamente ospitata in Sala Estense, è che non vi sia stata nessuna barriera tra l’artista sul palco e il pubblico sotto. Se scivoliamo un attimo (la scrittura ce lo consente) al termine del concerto, c’era una certa naturalezza con cui il cantante australiano (ma trapiantato negli Stati Uniti) si è messo in mezzo al pubblico per fotografie, discussioni veloci e qualche autografo su vinili e cd. Se sul palco, tra un brano e l’altro, nel raccontarsi ogni tanto traspariva qualche risata buffa, segno indistinguibile dell’imbarazzo dell’essere illuminato dalle luci e con gli occhi addosso del pubblico, una volta terminata l’esibizione c’era la sensazione di una grande onestà e tranquillità nello stare alcuni minuti tutti assieme.
Forse il discorso è anche semplice: la poetica di Scott Matthew, la cifra stilistica della sua musica è fatta di sentimenti ed emozioni, di pensieri propri e di esperienze personali. Come racconta tra un brano e l’altro si parla di una (sua) storia di amore finita, di una canzone dedicata e scritta per uno zio (suo) morto suicida e quasi mai conosciuto, lui migrante e omosessuale non accettato dal mondo. Ci racconta del suo sentimento e della canzone scritta per la strage di Orlando e di come si sia sentito, e di avere atteso troppo a farlo, di dover raccontare i lati oscuri del paese in cui vive, in cui troppo spesso ci si rassegna all’ineluttabilità dei fatti, incuranti del destino altrui.
Sono in quattro sul palco, descritti come veri amici e compagni di vita e lo si nota dai sorrisi e dal reciproco aiuto: non c’è il classico aiutante sul palco che passa gli strumenti, è il piccolo gruppo ad organizzarsi autonomamente. Protagonista però è la voce di Scott: profonda e intensa, nel canto si tinge di colori emozionali, nel parlato diventa più ironica e pacata. Lo diceva lui stesso in una intervista passata: per la maggior parte del tempo sono una persona felice, ma scrivo solamente quando mi succede o mi colpisce qualcosa nel profondo, in quello stato scrivo musica.
Ne esce un concerto che segue da vicino il nuovo disco “Ode To Others” rivolto alla propria terra nativa, l’Australia e che pure si concede di divagare nel passato con brani propri e alcune cover che lui stesso ammette di amare scrivere. E prima dell’ultima cover dice qualcosa di non banale: nel prossimo pezzo cantiamo assieme (il sing-along) è una cosa che amo particolarmente: ho scoperto essere la strada diretta verso la felicità. È questa la nudità di Scott Matthew, che restituisce con la sua voce profonda le sue emozioni e si nutre delle emozioni che riceve indietro, mostrando una fragilità, o forse più correttamente sensibilità, di rara grandezza che spiazza ed avvicina.
Così, in conclusione, è stato un concerto. È stata la voce, il basso a volte profondo, la chitarra in primo piano, gli archi saltuariamente ad incorniciare brani originali e qualche cover. È stato questo, ma la sensazione era di essere non in platea, ma in cerchio, attorno a Scott, seduti ad ascoltare e chiacchierare e vivere e sentire assieme, emozioni sotto forma di musica.