Domenica scorsa era la giornata mondiale contro la violenza sulle donne e in migliaia si sono riversate sulle piazze delle più importanti città. Pochi giorni prima a Imola Camilla Paganelli, giovane ostetrica laureatasi presso l’Università di Ferrara, ha vinto uno dei tre premi per la migliore tesi sul tema del contrasto alla violenza contro le donne istituito dall’Associazione di Volontariato PerLeDonne. La notizia è stata riportata su molti giornali e molto modestamente Camilla tiene a ricordare che “io sono arrivata terza”.
La tesi dal titolo La consapevolezza come strumento di formazione. Studio epidemiologico sulla violenza di genere negli anni 2014/2016 ha avuto come relatrice la professoressa Rosaria Cappadona e come co-relatrice la dott. Roberta Capucci che la stessa Camilla definisce “un’istituzione nel campo”.
Come nasce l’idea di questa tesi?
Io sono ostetrica e l’attenzione alle donne probabilmente parte da li. Alla fine della triennale finii un pò per caso un pò per passione a fare una tesi simile che si occupava sempre della violenza contro le donne negli accessi al pronto soccorso. La relatrice di allora fu la professoressa Capucci che da tanto si occupa di violenza di genere anche a livello regionale e la tesi magistrale è stata una naturale conseguenza.
Già dal titolo si evince, ma quanto è importante la consapevolezza per un operatore sanitario quando si trova di fronte a casi di violenza?
La consapevolezza è tutto. Ti faccio degli esempi. Una donna arriva in pronto soccorso con lesioni che dal punto di vista clinico non paiono particolarmente gravi, l’operatore non consapevole potrebbe dare un codice di triage basso, un bianco o un verde. Questo verrebbe a significare che la donna avrà tempi di attesa medio-lunghi e, molto spesso, non hanno la possibilità di attendere perché magari sono uscite di casa con una scusa e non possono aspettare. Questo porta ad avere un tasso di abbandono altissimo durante il periodo di attesa. In secondo luogo se l’operatore non comprende ciò che si trova di fronte rischia di non creare una situazione di privacy e riservatezza rendendo più difficile alla donna aprirsi. Questa probabilmente pur avendone inizialmente intenzione non lo farà. Per questo il riconoscimento della violenza è fondamentale, l’operato del sanitario può cambiare completamente la situazione.
Hai fatto uno studio epidemiologico, quindi una raccolta dati, hai notato differenze? Aumento o diminuzione dei casi? Maggior capacità degli operatori di riconoscere i casi?
I dati raccolti nella tesi magistrale riguardano il biennio 2014-2016 ma sono implementati da quelli della tesi triennale che afferiscono al periodo 2008-2013. Questi ultimi riguardavano solo il Sant’Anna mentre nella tesi magistrale raccolgo dati anche da Cento, Argenta, Lagosanto e la Struttura Sanitaria Territoriale di Comacchio.
Il dato numerico è abbastanza incoraggiante perché, prendendo solo i casi di Cona, rispetto ai dati raccolti in tesi triennale abbiamo una diminuzione dei casi passando dai 226 all’anno ai 199 attuali. Ma ciò che è più importante è il miglioramenti nell’operato dei sanitari. Ora ad ogni accesso al pronto soccorso viene riportato, oltre ai dati della paziente, anche una descrizione dell’accaduto. Inoltre in molti più casi si è arrivati a specificare che si tratta di violenza domestica e anche a riportare nome o grado di parentela del maltrattante. Questo è molto importante e in passato non veniva riportato per mancanza di consapevolezza. È invece fondamentale in caso di futura denuncia perché in quel caso si può risalire al maltrattante. Se fosse semplicemente riportato ‘opera terzi’ non avrebbe valenza in caso di denuncia. Segnare puntigliosamente questi dati aiuta a riconoscere la reiterazione di casi. Ce n’è stato uno in cui una donna si è presentata 23 volte sempre riportando lesioni da parte del compagno. Negli ultimi due anni appariva che il sanitario se ne fosse accorto e questo è molto importante.
Il dato importante mi pare quindi essere che ad una maggiore capacità degli operatori di riconoscere i casi di violenza questi, almeno per quanto riguarda gli accessi alla struttura di Cona, sono diminuiti.
Sono anche aumentate, in sede di triage, le assegnazioni di codice giallo che è quello che da protocollo va assegnato alle violenze.
E questo dimostra la capacità degli operatori di comprendere questi casi. In un’altra parte della tesi parli dell’importanza del coordinamento e integrazione del lavoro dei Servizi Sanitari con quello delle Forze dell’Ordine. Quale può essere l’utilità?
In questo caso il nostro obiettivo non è stato raggiunto. La denuncia è spesso la punta dell’iceberg per cui a scopo preventivo sarebbe utile avere un database congiunto in cui incrociare i dati degli accessi al pronto soccorso con quelli degli interventi delle forze dell’ordine (che non sempre corrispondono a denuncia, nda). Un database di questo tipo sarebbe utile per la prevenzione evitando così che si arrivi al caso di cronaca. Anche perché il caso estremo come l’omicidio non si può annoverare tra i raptus di gelosia e spesso ha alle spalle una lunga storia di violenze. Questo chiaramente è un obiettivo molto difficile da raggiungere, subentra il problema della tutela della privacy e richiede un impegno e una volontà da parte degli organi competenti che va oltre le possibilità di una tesi di laurea. Io stessa nell’analizzare i dati non avevo, giustamente, accesso ai dati sensibili dei pazienti che per me erano riconoscibili sono in quanto codici numerici da confrontare.
Delle tre parti della tesi l’ultima riguarda la violenza sulle donne in gravidanza. Ci parli un pò di questo aspetto?
Nei 9 anni di studio i casi passati dal pronto soccorso sono stati 51. La gravidanza, ci sono studi scientifici che lo dimostrano, non è un fattore protettivo rispetto alla violenza che, anzi, in molti casi può aggravarsi. Non voglio neanche pensare a cosa possa scatenare questa violenza ma questi sono i dati Istat. Il 30% dei maltrattamenti domestici iniziano in gravidanza. Nel 13% dei casi si assiste ad un aggravarsi o intensificarsi degli episodi di violenza. Di certo una donna in gravidanza non è protetta anzi, è ancora più esposta.
Come facilmente intuibile subire violenze, non solo fisiche ma anche psicologiche, può creare grossi problemi non più solo alla madre ma anche al bambino. Per il feto vivere in un ambiente di stress cronico quindi con ormoni dello stress sempre presenti può innescare un travaglio prematuro, può non far crescere adeguatamente il bambino e aumenta all’inizio della gravidanza il rischio di aborto spontaneo. Ovviamente questi sintomi non sono riconducibili esclusivamente alla violenza per cui ciò a cui un operatore deve guardare è altro. Le donne in gravidanza sono molto seguite e devono recarsi di frequente alle visite. Quelle soggette a violenza spesso si fanno seguire poco e magari saltano gli appuntamenti senza preavviso. Un operatore non preparato potrebbe liquidarle come menefreghiste in realtà potrebbero avere un contesto famigliare per cui gli risulta difficile seguire come dovrebbero la loro gravidanza.
Magari saltano l’appuntamento proprio per coprire un livido che potrebbe essere un’evidenza di violenza…
Certo. Allo stesso modo però è un periodo della vita di una donna in cui è sottoposta a controlli clinici frequenti e le capita di interfacciarsi più spesso con operatori. Questi controlli possono avvenire in momenti di relativa tranquillità perché essendo programmati in orario di lavoro impediscono al compagno di accompagnarla. Può quindi essere un momento prezioso se l’operatore è formato e sensibilizzato per cogliere la situazione.
Hai sottolineato più volte l’importanza della formazione. Come viene fatta?
Attraverso corsi di alta formazione in cui professionisti dei centri contro la violenza sulle donne, avvocati, psicologi e medici specializzati in queste tematiche incontrano gli operatori di un ospedale che hanno probabilità di interfacciarsi a casi di violenza. Si affrontano quindi gli aspetti legali, medico-legali come ad esempio non distruggere le prove in caso di violenza sessuale o come creare un approccio e un setting adeguato nella raccolta dell’anamnesi della donna. Inoltre questi corsi permettono di conoscere persone con le quali si ha spesso un contatto esclusivamente telefonico creando così contatti tra professionisti.
Infatti, pare di capire che le tesi principali del tuo studio siano l’importanza di una sempre maggiore formazione e quella della creazione di una rete…
Assolutamente.
Quali sono invece le difficoltà di un operatore nel trovarsi di fronte a casi di violenza?
Ci si deve ricordare che il nostro compito non è quello di convincere la donna a denunciare. È importante che le venga data questa opportunità ma chiaramente non è insistendo affinché denunci che la si porta fuori da una relazione violenta. Un operatore non formato è, ad esempio, quello che mira a convincere insistentemente la signora che deve denunciare. Noi siamo un piccolo tassello che interviene specialmente in fase acuta ma chi ha gli strumenti, il tempo e la capacità di prendersi carico di questo sono i centri antiviolenza quindi il nostro obiettivo principale deve essere appoggiarle nel contatto sul territorio. Altri aspetti complessi, aldilà del gestire la propria emotività, riguardano il contesto. La fretta che si ha in situazioni emergenziali che al pronto soccorso sono la norma sono nemiche di un approccio consono.
Se invece entriamo nell’aspetto emotivo gli operatori hanno spesso paura di piangere con la donna, di non saper gestire la situazione, di non essere forti per lei, come se in qualche modo dovessimo esserlo. Però l’ascolto empatico, l’accoglimento del racconto, il non giudizio sono tutti strumenti che si apprendono tramite la formazione.