Il carcere è per antonomasia luogo degli ultimi, dei reietti della società. Ci si finisce quando si oltrepassa la linea tra bene e male secondo l’ordine costituito, quando la giustizia stabilisce il prezzo da pagare mettendo la parola fine ad un certo tipo di vita per proporne tutta un’altra che si spera porti a qualche tipo di redenzione. È proprio il lungo cammino verso la redenzione a riempire le giornate dei detenuti nella struttura di via Arginone a Ferrara, la casa circondariale Costantino Satta, che quest’anno hanno incontrato un gruppo di cittadini per un paio di ore in occasione del Festival di Internazionale a Ferrara. Un ponte tra due realtà, tra il mondo fuori che prosegue a testa bassa la sua vita libera e costellata di problemi, e chi vive invece dentro un perimetro piccolissimo di città delimitato da mura di cemento. Cosa succede fuori lo conosce a volte solo attraverso il racconto di una tv. Un luogo dove c’è dolore e rabbia ma spesso anche speranza di rivedere un giorno la luce.
Il carcere di Ferrara è un enorme palazzo di cemento con braccia lunghe a cingerlo tra orti e giardini interni che non mettono alcuna allegria. Come un ospedale, ma ancora più triste. Entrarci in visita per la prima volta suscita un mix di sensazioni molto forti e mette soggezione. D’altra parte è proprio questo il suo compito: varcati gli enormi cancelli interni e superato il controllo documenti l’impatto con l’edificio e il suo intorno non è diverso dai film sul tema che affollano l’immaginario collettivo. Tante finestre uguali in fila, scarpe appese per i lacci alle sbarre, qualche indumento steso ad asciugare come in ogni casa che si rispetti. Le stanze di vita quotidiana sono micromondi colorati e disordinati, le immagino piene di parole, suoni, un misto di sconforto, silenzio, risate, imprecazioni, preghiera, letture. Il trascorrere delle ore all’interno di pochi metri quadrati può essere infinito se non ci si lascia abbracciare dalle attività culturali e ricreative che la struttura propone, anche su iniziativa di esterni.
Oggi siamo qui proprio per scoprire tre piccole realtà che lavorano con i detenuti giorno per giorno e che raccontano il mondo carcerario con occhi diversi e un entusiasmo che coinvolge. “Perché lavorare con persone simili? Perché proporgli attività culturali, non se lo meritano affatto! Chi ha sbagliato è giusto venga punito e stia in cella a marcire”, potrebbe obiettare qualcuno. Eppure è “il miglior modo per trascorrere le ore qui dentro”, ci racconterà più tardi Paride, tra i più giovani detenuti che incontriamo. La pensano così anche tutti gli operatori che lavorano con loro, fare cultura in carcere è il miglior modo di sanare le ferite dello spirito, seppure complicato e faticoso.
All’ingresso ad attenderci in quello che sembra un incrocio tra la hall di un albergo e l’atrio di una scuola c’è Raimondo Imbrò, un pittore polesano che conduce il laboratorio di pittura in carcere. Entusiasta dei lavori del suo gruppo ci conduce attraverso due corridoi mostrando le tele una ad una, spiegando significati, storie, ossessioni e stili dietro ogni opera, spesso sbagliate dal punto di vista formale ma cariche di energia e importanza. L’arte come percorso terapeutico è forse una delle attività più comuni in strutture come queste, eppure il livello delle produzioni stupisce per la qualità allontanando quel pensiero che ti ronza sempre intorno diventando pregiudizio: un detenuto sa dipingere come un vero artista? Prova emozioni gentili come noi fuori, che siamo andati a scuola e abbiamo visto centinaia di musei? Ci si aspetta sempre che un vero bad guy sappia manovrare con destrezza pistole e coltelli piuttosto che un pennello, ma la mostra è qui per ricordarci la nostra natura umana più profonda, che accomuna tutti quanti.
“È un attimo finire dall’altra parte, commettere uno sbaglio che finiamo per pagare caro – ammonisce Imbrò lasciando ammutolito il gruppo che lo ascolta – chiunque di noi è convinto di essere una persona corretta, che non potrà mai perdere la testa commettendo un reato, eppure tante storie di questi detenuti raccontano proprio questo”.
Cristiano Lega, fotografo di origini napoletane ma da anni a Ferrara e nostro collaboratore, ha condotto invece un laboratorio di fotografia con alcuni detenuti negli ultimi sei mesi. Gli scatti sono confluiti in una mostra dal titolo Limbici, tutti ritratti e autoscatti davanti a un muro bianco, completamente neutro. La fotografia in carcere, specialmente quando ritrae chi lo vive, è spesso retorica, cupa, andando ad esasperare gli aspetti più alienanti di ogni situazione. Per contrasto gli scatti di Limbici mettono in mostra sotto tutta un’altra luce le cinque o sei persone che si sono messe in gioco davanti all’obiettivo, increduli per primi dell’ottimo risultato finale, dove al contempo si mostrano come modelli e fotografi. Sorrisi, tatuaggi, sguardi intensi che raccontano gli uomini e non i detenuti, privi di ogni riferimento temporale e geografico, senza raccontare il loro pregresso ma soltanto ciò che sono oggi. Giocare con una macchina fotografica, conoscere un po’ di tecnica e la storia di alcuni fotografi famosi è un’attività complessa e del tutto insolita per un carcere, ma è un’esperienza importante e originale, che si spera potrà essere replicata in futuro all’Arginone.
L’attività più nota che ormai da 13 anni viene organizzata all’interno del carcere è però il suo giornalino. Lo chiamano proprio così – giornalino – i detenuti che raccontano il progetto, come una cosa piccola, un progetto scolastico, seppure di grande importanza. Astrolabio rappresenta, come il nome stesso suggerisce, un vero e proprio strumento di navigazione da ben 13 anni, un riferimento per chi trascorre parte della sua vita all’interno del carcere e desidera cimentarsi con la scrittura. Astrolabio è un bimestrale patinato e ben impaginato, stampato in proprio grazie al contributo del Comune di Ferrara e distribuito per posta, nelle biblioteche ma anche disponibile online sul sito della rivista.
Il progetto coinvolge una redazione interna di persone detenute insieme a persone ed enti che esprimono solidarietà verso la realtà dell’Arginone, coordinati dal maestro elementare Mauro Presini. Capace di dare voce ai reclusi e a chi opera per il carcere, raccoglie storie, eventi, poesie e pensieri in libertà, offrendo un’immagine della realtà “dietro le sbarre” diversa da quella percepita e filtrata dai media tradizionali. Alcuni dei ragazzi che lo scrivono raccontano dell’importanza che ha avuto nel loro processo rieducativo: chi si è avvicinato alla lettura in biblioteca, chi ha preso finalmente il diploma disponendo soltanto della licenza elementare, chi ha potuto fare amicizia con detenuti di altre sezioni che normalmente sono separate, sfruttando le riunioni del giornalino due volte a settimana. Soprattutto uno sfogo, libero, forte e necessario. Sfogliare le pagine di Astrolabio è come immergersi un po’ nel dolore e nella speranza, è come essere partecipi di un disagio, cogliendo al contempo l’importanza e l’entusiasmo di chi grazie a questi momenti trascorre più serenamente le sue giornate all’Arginone.
Momenti come il teatro, che porta in scena spettacoli ogni anno o gli incontri aperti al pubblico, come quello per presentare l’orto condiviso “Galeorto”, durante la scorsa edizione di Interno Verde o proprio in questi giorni con il festival di Internazionale e l’incontro con ottanta cittadini che hanno prenotato il loro posto con un mese di anticipo. L’affetto e l’interesse di tante persone curiose di scoprire come funzionano, seppure in parte, le dinamiche all’interno del carcere sono segnali importanti in una società che sempre di più si volta dall’altra parte, o nasconde la polvere sotto il tappeto cercando di non pensarci. Se l’anagramma di carcere è cercare, come racconta Presini, allora è bello che qualcuno abbia voglia di fare questa ricerca, varcando una soglia, rompendo un muro, stabilendo un contatto.