Quando quest’estate si è diffusa la notizia di Cristiano Ronaldo alla Juve non ho potuto fare a meno di pensare – sganasciandomi – che la dirigenza bianconera aveva spudoratamente copiato la dirigenza di Zone K. Perché qui, nella città dell’Ars et Labor, il colpaccio era stato annunciato con un certo anticipo: Lee Ranaldo si sarebbe esibito in settembre sul palco della Sala Estense. Per come la vedo io il colpaccio di Zone K supera nettamente quello della Juve.
Potrei elencare centinaia di motivi a supporto di questa mia apparentemente bislacca tesi ma finirei per sproloquiare come un cretino, quindi cercherò – come dicono i giovani – di “stare sul pezzo”, limitandomi a introdurre un personaggio che qui a Ferrara è quasi di casa.
Lee Mark Ranaldo, classe 1956, newyorkese di origini italiane – precisamente di Benevento – è stato, dal 1981 al 2011, una delle due chitarre – e delle tre voci – dei Sonic Youth, band che a Ferrara è passata più di una volta, sempre sul palco di Piazza Castello. Apparentemente rivoluzionari, i Sonic Youth sono stati in realtà dei grandissimi riformatori.
È vero, Lee Ranaldo e Thurston Moore, suo collega al reparto chitarre dei SY, hanno fatto entrambi la gavetta nella plurichitarrosa orchestra di Glenn Branca – l’uomo che riuscì a farsi appioppare l’etichetta di “compositore fascista” da nientepopodimenoche John Cage in persona – ma se a un certo punto della loro carriera, forti di un contratto con un’etichetta grossa come la Geffen, si sono ritrovati a procurare un contratto discografico ai Nirvana, a vendere più magliette che dischi – tipo la famosa maglietta blu con sopra la lavatrice – e ad apparire nell’ultimo episodio di “Una mamma per amica” ci sarà un perché.
E il perché – anche se il buon Lee lo spiegherà concretamente, chitarra alla mano, venerdì 14 alla Sala Estense – è presto spiegato: i SY, da bravi padrini della generazione indie/hipster che tanto detta legge al giorno d’oggi, conoscevano per ben beninola storia del rock classico ed ebbero dunque la furbizia di convogliarla con perizia ed equilibrioall’interno del loro background sperimentale figlio di Glenn Branca, dei Velvet Underground, di tutte le band che gravitavano attorno al CBGB’s e del passato/presente/futuro da artista visiva di Kim Gordon, la loro dottissima bassista.
Ecco: in tutto quel casino, Lee Ranaldo – col suo sistema di accordature da sCiopatesta, coi cacciaviti infilati fra le corde delle loro 30 chitarre e passa – è stato certamente un grande sperimentatore ma è sempre stato anche il grande, unico custode della classicità. Lee Ranaldo è un flippato di Bob Dylan, forse il più grande fan dei Grateful Dead sulla faccia della terra eprobabilmente l’unico hipster-o-padrino-degli-hipster che può dichiarare ai quattro venti il suo essere un fan sfegatato di Bruce Springsteen senza rischiare un linciaggio, un rogo sotto un semaforo o la lapidazione.
Vorrei precisare che quest’ultima cosa la tengo particolarmente nel cuore perché varie volte, l’ultima neanche un mese fa, ho rischiato grosso dichiarando il mio amore per il Boss in modo anche relativamente sobrio ma vabbè, passiamo oltre. Insomma, Lee Ranaldo è un tipo che si è brizzolato presto e che è un po’ come i suoi vestiti: colori autunnali, sobrietà e niente tamarrate. Praticamente l’opposto del suo ex collega al reparto chitarre, uomo che vive una crisi di mezza età che – proprio come il disco con cui i SY chiusero bottega – si potrebbe chiamare theEternal.
È proprio per questo che non mi sono stupito quando Lee Ranaldo fu il primo a rompere il silenzio dopo lo scioglimento dei SY. Nel 2012, neanche un anno dopo, lui che là in mezzo era stato un po’ il George Harrison della situazione – schiacciato dalla coppia-che-scoppia e solitamente con un solo pezzo a sua firma per album – se ne esce con il suo primo disco di sole canzoni, cosa che in 30 anni non aveva mai fatto perché solitamente lui era quello di dischi strumentali e strambi tipo “From Here To Infinity”, un album del 1987 fatto solo di loop di chitarra più qualche suo parlato/recitato qua e là.
Comprensibilmente allora, quel suo primo disco di sole canzoni, “Between the Times and the Tides” – proprio come l’esordio da solista di George Harrison – era il lavoro di qualcuno che aveva molte cose da dire. “Between the Times and the Tides” è un disco di belle canzoni, canzoni nellostile a cui ci aveva abituati – bene secondo me – con i suoi contributi sui dischi dei SY. Tanti però rimasero spiazzati, mi ricordo addirittura dei paragoni con il primo disco solista di Noel Gallagher. La cosa ci può anche stare, visto che entrambi sono fan dichiaratissimi dei Beatles. Però questa mi è sempre sembrata una valutazione figlia del grande casino che hanno lasciato i SY. Forse in tanti si aspettavano Lee Ranaldo che a 50 anni e passa suona ancora la chitarra con il trapano ma fortunatamente il nostro uomo avevadeciso di andare avanti, verso quella che per lui era una strada ancora poco battuta: scrivere solo canzoni. Per come la vedo io, la sua è stata una buona mossa.
Da bravo esegeta di Bob Dylan, Lee Ranaldo sa benissimo che restare ingabbiati non porta mai a qualcosa di buono. Così, da un po’ di anni, fa i dischi che vuole fare e fa i concerti che vuole fare. Ha abbassato il volume e a volte se ne va in tour in assetto voce e chitarra acustica. Ovviamente non una sola chitarra acustica perché il nostro è pur sempre l’uomo dalle mille accordature. Lee Ranaldo è e probabilmente sarà sempre un musicista “sperimentale” ma da quando si sono sciolti i SY quel suo essere un musicista “sperimentale” lo sta portando verso altre cose. Cose che a mio avviso non sono per niente distanti da quelle di prima, anzi, – per come la vedo io – sono complementari al suo percorso, proprio come la famosa svolta dei suoi amati Grateful Dead ai tempi di “Workingman’s Dead” e “American Beauty”.
Insomma, tutto torna. Il disco successivo, “Last Night on Earth”, esce appena un anno dopo il primo e prosegue su quel solco con ancora più convinzione. I pezzi sono nettamente più lunghi e torrenziali, spesso arricchiti da code strumentali, forse perché è il primo disco accreditato Lee Ranaldo & The Dust, ovvero: una band vera e propria con il fidatissimo Steve Shelley alla batteria – l’Harry Potter dei SY – Alan Licht alla chitarra e Tim Lüntzel al basso. Con questa formazione, nel 2014, Lee Ranaldo registra “Acoustic Dust”, un album totalmente acustico in cui rivisita pezzi dai due album precedenti e si diverte con qualche cover. Dopo queste uscite discografiche tutte in fila, il nostro eroe – costantemente in giro o in tour – si prende una pausa e torna a farsi sentire su disco nel 2017 con “Electric Trim”. “Electric Trim” è un disco strano forte. Non ha ricevuto il plauso quasi unanime delle sue altre uscite ma è un disco a mio avviso molto sensato. Forse “manca di coesione” ma secondo me il suo fascino sta anche in questa cosa. È un disco registrato un po’ in giro per il mondo ed è forse il suo album più completo: qui c’è tutto il suo percorso, da “From Here To Infinity” alla sua vecchia fissa per i Master Musicians of Joujouka (Moroccan Mountains), dalla sua recente riscoperta della chitarra acustica a qualche azzardo con un po’ di suoni electro. Ascoltando “Electric Trim” uno si chiede: come potrà essere il disco che farà dopo? E io – che personalmente preferisco le domande alle risposte – apprezzo molto questo mischiare le carte.
Di seguito, qui sotto, 5 contributi audio utili a tracciare un profilo – si spera abbastanza completo – della carriera di quest’uomo.
01: Off The Wall, da “Between the Time and the Tides” del 2012
Il pezzo che fece saltare sulla sedia grandi e piccini, il primo singolo diffuso su internet ai tempi di “Between the Time and The Tides”: Lee Ranaldo rompe il silenzio dopo la grande tragedia e lo fa con un pezzo di 3 minuti quasi tondi tondi con strofa/ritornello e tutto che per alcuni fu “troppo classico” o peggio ancora “troppo classic rock”. Ma vabbè, ne abbiamo già discusso anche troppo.
02: Key/Hole da “Last Night on Earth” del 2013
Il pezzone dal secondo album, la consueta attenzione per i rigorosissimi canoni della forma canzone con in più l’energia del cioccolato sul finale, ovvero: quello che ti aspetti da qualcuno che fra i suoi dischi della vita ha il coraggio di mettere “Live Europe ’72” dei Grateful Dead.
03: Late Descent #2 da “Last Night On Earth” del 2013
Altro pezzo dal secondo album che a me, personalmente, ha fatto sbroccare peso. Il nostro uomo ha il coraggio di cacciarci un clavicembalo che potrà infinocchiare molti ma non me: fra deadheadci si capisce (cit.) e io so bene il perché di quel clavicembalo.
04: You Just May Be The One da “Acoustic Dust” del 2014
Ranaldo si conferma il beatnik/fricchettone-dentro che è da sempre inserendo questa cover dei sempre troppo poco amati Monkees nel suo disco acustico del 2014: vendichiamo Marge Simpson e tutti noi fan dei Monkees, presi in giro ancora oggi.
05: Purloined da “Electric Trim” del 2017
Bene, a questo punto non c’è molto altro da aggiungere. Io ho parlato, come sempre anche troppo, la musica ha parlato e spero vivamente che sia stata più eloquente – e soprattutto più chiara – di me. Di motivi per andare a vedere Lee Ranaldo ce ne sono a iosa, indipendentemente dal mio sproloquiare. Se hai amato i Sonic Youth e tutto quel che gli stava intorno, se hai amato i Grateful Dead, se ti piacciono anche solo le chitarre e magari la suoni pure, se ti piace anche “solo” la musica o se sei anche tu un membro del rinomatissimo coro “a Ferrara non c’è mai niente”: vai a vedere Lee Ranaldo. Cordiali saluti e grazie ancora ai ragazzi di Zone K.