La corsa, nella sua declinazione più nobile e leggendaria è uno sport silenzioso. Un rito collettivo che sposta le masse ma non attira la stampa o le grandi folle. È una enorme comunità con una caratteristica unica nel suo genere: tutti competono nello stesso modo, allo stesso livello, nel medesimo istante. Domenica 16 settembre, a Berlino, Eliud Kipchoge ha riscritto la storia di uno sport, percorrendo i 42 chilometri e 195 metri della maratona in due ore, un minuto e trentanove secondi. L’ultimo arrivato, Klose Edgar, ci ha impiegato sette ore e mezza. Sono partiti nello stesso istante, hanno compiuto gli stessi passi, forse vissuto la stessa emozione, certo, con risultati diversi eppure probabilmente, per entrambi, è stata l’impresa della vita. Questo miracolo accade praticamente in ogni città. Compresa la nostra. La Ferrara Marathon, erede della Vigarano Marathon, alla sua edizione numero quarantacinque, si prepara ad ospitare nell’ultimo weekend di settembre circa quattromila persone. Una edizione rinnovata, con un importante cambio di data (da marzo a settembre), come ci racconta Massimo Corà, presidente della Corriferrara.
Lo incontriamo al Bar Diamante, perché la storia di questa e di tante altre associazioni podistiche è quella della normalità: il bar è suo, la società è gestita dalla famiglia, che ancora piange la scomparsa prematura del padre, Giancarlo Corà, fondatore della società e motore del movimento podistico ferrarese. Una edizione quest’anno ancora più democratica: alla distanza di 42km si affianca la mezza maratona (21 km, ovviamente), la 30 km, distanza utilissima per gli allenamenti, la Family Run di 6,5 km e sabato pomeriggio non mancherà la Kid’s Run, per i più piccoli.
Massimo racconta i numeri incredibili di una manifestazione che passa quasi sotto silenzio in città: circa 400 persone impiegate nello staff, iscritti che vengono a Ferrara da Brasile, Norvegia, Bielorussia, Portorico, Taiwan, Israele, senza dimenticare i più vicini paesi Europei. Nel suo anno migliore, il 2016, ci furono ben 36 nazionalità diverse presenti, ci racconta. Ci saranno le associazioni benefiche, ci saranno persone che corrono la maratona spingendo in carrozzina alcuni bambini malati, per fargli vivere l’emozione del percorso. Da sempre, per chi non la vive, la Maratona è quel giorno in cui le strade sono bloccate e le auto, nervose, fremono con la disperata voglia di suonare il clacson nell’attesa di quel lungo serpentone di piedi.
Eppure dentro c’è tutto questo. Il popolo del bar si divide costantemente tra i giovani ragazzi, magari del Liceo Ariosto che confina, e la lenta processione di certificati medici, volantini, progetti da approvare. Le persone che si incontrano per un allenamento, come quelle del progetto Running School, che è nato per avvicinare la popolazione di Ferrara allo sport ed alla corsa. Era una piccola idea, in dieci mesi sono arrivati cento iscritti, nove su dieci donne, che si mettono in gioco su vari livelli e iniziano a correre, partecipare a piccole gare, di quelle che ogni domenica fermano un paese della provincia per un paio di ore.
Massimo ci racconta che l’idea per il futuro è mettere in collegamento Ferrara, la Maratona e il turismo: è un settore in grande espansione e la possibilità di creare pacchetti per passare alcuni giorni a Ferrara e la domenica correre la propria grande impresa sarebbe il volano per un ulteriore salto di qualità, per un evento ancora più internazionale. Serve accennare all’importanza della Maratona di New York per la città stessa? Racconta anche la difficoltà di mantenere in piedi l’evento, schiacciato nell’ultimo periodo dalla risonanza mediatica ed economica che la Spal riesce a prendersi: non potrebbe essere diverso, in questo paese.
Eppure non svanisce la magia di un popolo silenzioso che si riunisce per mesi e poi inizia a lavorare. Traccia le strade, transenna la partenza e l’arrivo, inventa la medaglia per chi arriva in fondo (quest’anno le chiavi della città). Prepara il pacco gara, come una piccola fabbrica di Umpa Lumpa dove ognuno inserisce qualcosa, azione da ripetere per ore e ore, un pacco per ognuna delle migliaia di persone iscritte. Si organizza il servizio di controllo borse, per tenerle al sicuro, la distribuzione dei pettorali, le moto al seguito del tracciato, l’assistenza medica sperando che non debba lavorare. Poi si preparano i ristori, liquidi e solidi, lungo il tracciato e il grande ristoro finale. Ecco, il ristoro finale: un non luogo aperto per alcune ore dove inizialmente arrivano i più forti, acqua o thè e magari una marmellata o poco più, il passo svelto e sicuro, il sorriso orgoglioso. Con il passare dei minuti e delle ore, il passo diventa trascinato, il ristoro un posto sicuro dove fermarsi, appoggiare gambe che non ti tengono più, cambiare magliette ormai prive di personalità dopo circa quarantamila passi compiuti lungo il percorso. Negli occhi c’è la sofferenza e la soddisfazione di chi è arrivato in fondo. Come Kipchoge e Klose, partiti dalla stessa mattonella, arrivati sotto alla stessa striscia, in un qualche modo applauditi ugualmente, con diversa ma vicendevole ammirazione, per chi ha sfidato sé stesso.
E ha vinto, in attesa della medaglia sotto gli occhi del Castello Estense.
Per saperne di più: https://www.corriferrara.it/?page_id=3959
1 commento
Complimenti per l’articolo… bellissima intervista… e domenica ci sarò anche io a fare i “nuovi” 30 km … sicuramente di quelli che arrivano con il passo pesante e trascinandosi al ristoro finale … e poi la medaglia … sarà la più bella di quelle conquistate finora (nella speranza di arrivare) 🙂