Volevo conoscere persone che scrivono a Ferrara e mi hanno presentato Stefano. Quando ho scoperto che oltre ad aver pubblicato già due libri è anche artista digitale e ha esposto i suoi lavori anche in Cina mi sono sentita un po’ come quando incontri la compagna delle medie che ha già tre figli mentre io faccio morire anche le piante grasse. Così l’ho intervistato. Mi ha subito affascinato perché ha ordinato un gin tonic alle 18:30, e chi ordina un gin tonic a quell’ora o è un inglese in vacanza o un’ottima persona.
Ti ho conosciuto come scrittore ma da più di 12 anni sei un artista digitale. Da dove ha origine questa urgenza di esprimerti e perché come primo canale hai scelto la Digital Art?
Io nasco nerd. Comprai il primo Amiga 1200 con un plico di manuali in inglese e giapponese a dieci anni. Non sapevo nemmeno cos’era un hard disk all’epoca, infatti comprai la versione senza memoria quindi solo per avviarlo dovevo cambiare dischetto almeno una trentina di volte! Poi a sedici anni, con il primo stipendio, comprai la mia prima reflex digitale e inizia ad avvicinarmi anche al mondo della fotografia. Ho iniziato da autodidatta, da perfetto incosciente. Ho continuato da autodidatta frequentando giusto un paio di corsi per le basi. Negli anni a seguire ho avuto la fortuna di lavorare sempre in contesti creativi (sono passato dalla pasticceria al web design!), accumulando conoscenza e padronanza di vari software tra cui il mio preferito da sempre: Photoshop.
Ormai sono quindici anni che lo utilizzo giornalmente però, mentre di giorno mi serve per realizzare immagini commerciali e patinate, quelle cose con la gente sorridente, spiagge assolate e famiglie “Mulino Bianco”, per intenderci, la sera invece, chiuso nella mansarda, stravolgo il tutto, dando vita a composizioni con cieli perennemente oscurati, luoghi claustrofobici e persone dai volti oscurati. Con il passare degli anni poi, quest’ultimo aspetto, il volto nascosto o mascherato intendo, è diventato il tratto distintivo di tutte le mie composizioni. È successo in modo spontaneo, naturale, e mi fa sempre uno strano effetto usare l’aggettivo “naturale” per immagini completamente artificiali.
Chi sono i personaggi delle tue foto? In che paesaggi si muovono? Perché indossano delle maschere? Ah, se mi dici dove trovare quella da coniglio, l’ho sempre desiderata!
Nella maggior parte delle mie immagini i protagonisti sono spesso singoli soggetti che si aggirano sperduti in luoghi inospitali e desolati. La maschera copre ogni possibile emozione, ogni tratto somatico, tramutando le spoglie figure in materia senza nome e senza passato, pronte ad accogliere una nuova forma. È un mezzo, un canale di comunicazione e al tempo stesso una barriera protettiva.
In genere le mie ambientazioni sono tutte esterne, tranne la serie Mad Parade. Qui c’è un ribaltamento del contesto: dallo spazio sconfinato alla stanza chiusa. Questa serie è stata pensata come un’ipotetica sequenza di fotogrammi di film underground. Quelle pellicole di nicchia spesso snobbate dalla grande distribuzione dove si lascia spazio all’improvvisazione, alla sperimentazione, alla suggestione, anche senza dover necessariamente seguire un filone logico. Sto pensando ai deliri di Lynch, in particolare a pellicole come Inland Empire.
P.S.: la maschera da coniglio è un oggetto fetish, la trovi facilmente in ogni negozio che vende articoli erotici, a Berlino quasi te le tirano dietro!
In maggio hai partecipato ad un’importante esposizione a Zhengzhou in Cina, all’interno del China International Photographic Art Festival, con altri artisti digitali Italiani. Come sei stato contattato?
Sono stato contattato da un curatore d’arte specializzato nella promozione di artisti italiani all’estero. Cercava fotografi e digital artist per questa collettiva di fotografia contemporanea a Zhengzhou, presso la Shengda Art Gallery e si è imbattuto nel mio sito. Ci siamo conosciuti e abbiamo fatto una selezione preliminare cercando di proporre immagini di un’unica serie, legate da un filo comunque. Il resto è stato molto semplice, purtroppo non ho potuto recarmi personalmente all’esposizione ma il riscontro è stato molto positivo e quindi stavamo pensando di proporle anche per l’edizione che si terrà a Los Angeles. Io incrocio le dita!
Alcune delle tavole scelte sono ambientate in palazzi veneziani e ricordano le allegorie barocche, fatte di meraviglie e incertezze. E’ possibile abbiano selezionato queste tue opere, invece che altri tuoi interventi digitali proprio per queste caratteristiche?
È un’ottima osservazione. In tre delle immagini selezionate in effetti vengono proposti degli interni dallo stile barocco italiano che potrebbero essere d’interesse per un pubblico internazionale che, oltre alla tecnica compositiva dell’artista, vuole immedesimarsi anche nei contesti culturali e nell’architettura della nostra meravigliosa penisola.
C’è tanta luce che avvolge le opere della tua ultima serie The White Sky. Perché questo candore si è posato sui tuoi incubi?
In realtà io non lo percepivo come un candore nella sua accezione positiva ma più come una sorta di limbo narcotizzante. Il bianco mi ha sempre terrorizzato, molto più del nero, perché è un colore (anzi, il metacolore, visto che è la somma di tutti gli altri) che io ho sempre associato ai contesti ospedalieri. La luce fredda e impersonale di un neon mi ha sempre messo più a disagio di un cunicolo buio o una notte perenne. Si tratta comunque di una serie che offre un margine di respiro e prospettive più ampie delle precedenti. È un po’ come se i miei personaggi riemergessero dalle profondità della terra per prendere una lunga boccata d’aria e poi scoprire però che la superficie che li accoglie non è meno inquietante delle profondità in cui si trovavano seppelliti prima. Anche se ripuliti e desaturati, sempre incubi rimangono.
Com’è il tuo rifugio creativo, la stanza dove lavori? E’ una wunderkammer con qualche suppellettile decorativo bizzarro (tipo il teschio di un tasso) o è ordinato e minimalista?
Io sono un feticista del minimalismo, ma purtroppo il mio rifugio creativo è tutto fuorché minimale. Essendo prima di tutto un lettore onnivoro, ogni spazio disponibile in casa mia è intasato da libri letti e “in lista di lettura”. Come se non bastasse, ho una parete ricoperta di cataloghi d’arte e fotografia: la mia sorgente d’ispirazione che ha tenuto testa anche all’avvento del digitale. Google è una fonte di stimoli e suggestioni infinita ma vuoi mettere il piacere di sfogliare un catalogo? Odorarne la carta, la consistenza… quando voglio rilassarmi non trovo di meglio che spulciare nei miei archivi fotografici. A parte questo delirio cartaceo, nella mia stanza non ci sono animali impagliati o feti in formalina, però anch’io ho il mio piccolo teschio con tanto di cilindro e una stampa originale di Masao Yamamoto, donatami dal maestro stesso quando ebbi l’onore di conoscerlo di persona a Verona.
Ti sei approcciato alla fotografia da autodidatta, alla scrittura in maniera collettiva attraverso un corso con l’autore Gianluca Morozzi. Vedo che sei molto attivo organizzando eventi letterari e presentazioni. Mentre quando penso a te come fotografo lo associo ad un tuo mondo più intimo e solitario nel tuo abbaino avvolto in una nebbia di pensieri. Un po’ un Caspar David Friedrich moderno… o sbaglio?
Anche la scrittura resta un evento privato. Le presentazioni e gli incontri letterari sono una conseguenza successiva, ma entrambi i processi creativi iniziali (scrittura e composizione digitale), nel mio caso, restano atti intimi e solitari. La mia stanza si chiude, le luci si abbassano, si sente solo la musica (elettronica minimale), il mio click su mouse e tastiera e la Gatta che russa.
Ferrara è una città dove un giovane artista può mettere radici e ha spazio per esprimersi?
Ferrara è una bomboniera accogliente e vivibile. Negli ultimi anni stanno nascendo tante realtà promettenti (penso per esempio al Consorzio WunderKammer o alla Factory Grisù) che possono offrire strumenti e spazi a ragazzi che vogliono realizzare qualcosa di creativo o anche solo confrontarsi con sensibilità affini. È un grande passo per una piccola città. Anche la vicinanza con Bologna offre agli studenti in zona una scelta di proposte tra eventi, mostre e concerti pressoché infinita.
Qual è uno scorcio di Ferrara che ti attrae ma allo stesso tempo ti inquieta? Naturalmente ci andrò subito…
Non solo c’è ma ti dirò di più, ci ho pure ambientato qualche scena del romanzo a cui sto lavorando. Ovviamente, ora che mi conosci, sai già che non puoi aspettarti un panorama bucolico o un campo di margherite. Si tratta di un bunker antiaereo usato come rifugio durante la seconda guerra mondiale. Si trova in zona Rivana Garden, un po’ lontano dal centro cittadino e fuori dalle mura, vicino alla zona dell’aeroporto. Ho trascorso un sacco di pomeriggi a prendere il sole schiacciato su quelle pareti di cemento come una lucertola, ormai sono anni che non ci vado, ma all’epoca aveva anche un’entrata ancora agibile (a patto di riempirsi il corpo di ragnatele, graffi e insetti viscidi). Mi ricorda l’entrata dei Barrens del film IT, invitante, no?