Chi passa spesso in via Vittoria lo sa: tra i civici 26, 24 e 22 c’è sempre un gran chiacchierare. L’insegna del 22c, un po’ scolorita, è lì da quel mattino fresco d’inizio marzo del ’62 quando un ragazzo, con la sua camicia blé (che dovevi fare l’aviatore, Giorgio!) apriva il suo laboratorio. “Quell’insegna”, sulla quale, sempre su una sfumatura Blu svetta fiera la parola “Sartoria” “è opera di un artista che aveva la bottega poco più in là, non lontano da quell’osteria da dove proveniva sempre un gran baccano e dal laboratorio delle imbustatrici di borotalco che si ostinavano ad indossare dei grembiuli neri.
“Deve sapere, signorina, che questa strada era un via vai di persone e di clienti che facevano la spola tra le botteghe!”
Giorgio Caleffi, classe ’39, è una pietra miliare di quello che ancora viene chiamato da tutti Il Ghetto Ebraico. Quelle tre vie così vicine al centro e così fuori dal mondo tanto da costituire tutt’oggi un universo a parte, ospitano ancora la storia dei personaggi che le hanno modellate e le hanno rese indimenticabili a chi le ha attraversate.
“Sono nato qui, nell’antico ghetto, alla fine degli anni trenta. La guerra stava arrivando e la mia famiglia aveva deciso di allontanarsi dalla città; quando tornammo la casa era occupata e fummo costretti a spostarci. Ma quando decisi d’aprir bottega, nessun dubbio, sarebbe dovuto essere qui. Queste strade sono per me meravigliose e ci sono profondamente legato.”
Entrare nell’universo di Giorgio Caleffi è emozionante. Pochi metri quadrati e una miriade di oggetti: oltre i ferri del mestiere e delle superlative forbici d’inizio del secolo scorso, metri, manichini, dediche, foto, articoli, e quelle immancabili sedie che ospitano gli amici di una vita. Perché la Sartoria di via Vittoria 22c non è una semplice bottega, ma la seconda casa di un uomo che tra uno spillo e l’altro ha visto trascorrere 56 anni di storia e sfilare persone e clienti di ogni genere. “Bassani non veniva spesso. Ma suo fratello sì. E poi, Cappello, Del Neri, Cipollini e i giocatori della SPAL, quelli erano clienti fissi. Se non sbaglio, ho realizzato abiti per 52 di loro… E qui li volevano stretti, e lì più larghi. Mica facile sai, creare dei pantaloni su misura per i calciatori, con quei polpacci lì! Poi c’erano i professori, e quelli che mi chiedevano dei pantaloni a zampa d’elefante di mezzo metro… e il danzatore di Abano, amante di papillon e damascato… Oggi invece non è più così, chi ha tempo per aspettare che gli si cucia un abito? Ci sono tanti negozi, non si bada più al lavoro di noi sarti! Per non parlare dei camiciai, ti saprei a stento dare qualche nome”.
Riflettendoci, nel mio armadio ho due gonne confezionate da una sarta. Una tinta unita, una con la stampa dei coni gelato. Ma Giorgio le gonne non le fa, men only. Sono pochi, ormai, i sarti rimasti in circolazione e ancor meno, probabilmente, i giovani che si affiancano al mestiere.
“In realtà, che io sia divenuto sarto è stato un po’ un caso. Da ragazzo facevo le industriali, sarei dovuto diventare perito, però ecco, diciamo avendo ripetutamente e assolutamente di proposito perso i libri, i miei passi sono stati dirottati su un’altra strada. Mio zio era sarto: nel 1919, non ancora ventenne, era andato in Brasile e aveva fatto fortuna. All’epoca mi fu chiesto di andar li, emigrare per lavorare con lui ma decisi di rimanere qui e, prima dei trenta, avevo già, orgoglioso, la mia bottega.”
Mentre Giorgio parla, da qualche boccata alla sua linda e si perde tra i ricordi. “Quando ho aperto, per strada si sentivano le urla dei bambini che al mattino giocavano a pallone, poi il chiacchierio delle signore che andavano prima dal macellaio all’angolo e poi proseguivano verso piazzetta Lampronti, passando davanti al fornaio e al pittore, per arrivare sulla soglia del laboratorio di Lino Zanella, un intagliatore bravissimo. C’era sempre un gran via vai, per non parlare della sera, quando qui accanto in Vicolo Mozzo Torcicoda ci si fermava a fare il filò con qualche bif mentre le ballerine del Teatro Verdi sgambettavano in fretta verso la pensione degli artisti tra gli apprezzamenti dei clienti dell’Orfeonica, una delle due osterie del quartiere. Che tempi. Tutti parlavano dalle finestre e io, dietro la mia scrivania, con la mia camicia blé e la mia cravatta, ero un po’ al centro di un continuo marasma.”
Guardandomi intorno noto che il blé, come lo chiama Giorgio, fa capolino anche su uno dei suoi manichini. “Quella giacca è per un signore che vive all’estero, mi ha commissionato tanti lavori per settembre – ottobre. Lui torna ogni qualche mese, ritira e riparte. Beato lui. Io l’aereo non l’ho mai preso, mi fa un po’ paura. Però in giro ci sono andato eh… in viaggio di nozze, con mia moglie, abbiamo fatto un bel giro. Ma avevo dimenticato le valigie a casa, vicino alle scale. Succede, no?”
Mentre rido con quell’uomo che ha più del doppio dei miei anni, cerco di immaginarlo da giovane, mentre continua a raccontarmi di com’era vestito durante la luna di miele e delle sue novantadue cravatte. Per il matrimonio, ne aveva una a pois. Persa nelle mie fantasie retrò, quasi senza rendermene conto, poso le mani su una vecchia Singer che mi ricorda un pochino quella della mia nonna materna (che per la cronaca, di vestiti non me ne ha mai cucito uno) e Giorgio tira fuori una valigetta da sotto al bancone.
“Ci sono anche i morti, qui sotto”, dice ironico, ma onestamente, con la quantità di cianfrusaglie presenti in bottega, non so se mi sento di contraddirlo.
Il momento in cui apre la valigetta somiglia un pochino a quello in cui da adulti, ritroviamo una vecchia scatolina nella quale negli anni abbiamo “seppellito” dei piccoli tesori. Qui, non preziose pergamene ma cartamodelli, ognuno chiuso da una stoffa diversa. Una miriade di modellini di pantaloni, ciascuno con una storia ed un proprietario diverso che in questo mezzo secolo ha varcato la soglia della bottega del sarto di via Vittoria in cerca di un pezzo unico e su misura per lui.
“Vede signorina, qui c’è tutto un mondo”.
Giorgio sorride, poi mi abbraccia. Riprende in mano il suo ago e filo, poi le forbici centenarie. Fuori c’è aria di pioggia, é ora di mettersi a lavoro.
2 commenti
È veramente un piacere riscoprire i luoghi che fino a qualche anno fa erano davvero il fulcro della nostra città. Il centro per far commissioni di qualsiasi tipo, per fare una semplice vasca da soli o in compagnia. Grazie mille per questi amarcord che mi fanno scoprire e riscoprire la mia città, da cui mi sento sempre più distante.
Sono stato cliente del grande sarto Giorgio. Grande Maestro perché la parola professionista è troppo recente e non richiama la tradizione da lui impersonata. Tantissimi auguri Giorgio