Canticchiavo l’altra sera in macchina mentre raggiungevo gli amici per una cena. Un invito un po’ bizzarro, avevo pensato: “ci vediamo verso le sette al Parco dell’Amicizia, quello tra Krasnodar e Ippolito Nievo. Porta qualcosa da mangiare e anche il tavolo”. E così ho fatto, sono arrivata carica del mio vecchio tavolaccio di plastica, una torta salata e un buon antizanzare. Ho capito di essere nel posto giusto quando, una volta parcheggiato, mi sono unita al flusso di persone con sedie e tavoli al seguito e seguendo un sentiero tra i prati mi sono trovata davanti alla lunga distesa di tavole apparecchiate che andavano a formarne una unica brulicante di gente.
Era l’immagine di un enorme banchetto, di quelli rappresentati nei quadri imponenti delle pinacoteche, quei quadri che raccontano di banchetti festosi che trasudano vita e movimento, quei quadri dove sembra di sentire il vocio delle persone, gli schiamazzi dei bambini e il profumo del cibo. In effetti i rumori e i profumi di quella rivisitazione contemporanea io li stavo sentendo per davvero e come nell’osservare un’opera, dopo essermi goduta la visione piena e generale, mi sono incamminata lungo quell’immagine scaldata dalla luce rossa di un tramonto pacifico, alla ricerca dei dettagli da scoprire, da ascoltare e da raccontare.
La prima persona che mi accoglie come un padrone di casa è Patrizio Fergnani che di fatto è un po’ come se fosse il “primo” commensale di questa tavolata che si ritrova ogni anno dal 2012. “Il giorno del terremoto, quello della seconda scossa, la mattina del 29 maggio – racconta. – I bambini sono usciti dalle scuole e si sono radunati in questo parco, insieme alle persone fuggite dalle abitazioni. Per intrattenerli abbiamo organizzato giochi e canti, abbiamo allestito tavoli –questi stessi tavoli – per mangiare e montato tende per la notte. Un anno dopo Marco, il mio secondo figlio, mi dice “sai che nonostante tutto quello che ci stava intorno mi è rimasto un bel ricordo di quei giorni passati al parco?” e così abbiamo deciso di ripetere l’esperienza e rivivere quell’atmosfera di convivialità che si era creata. Ho trovato un nome all’iniziativa “Un tavolo lungo un parco” anche se per adesso il tavolo copre solo un lato del parco; nei nostri sogni arriveremo a coprire tutti i 551m del perimetro, chissà se è utopia o succederà”.
Patrizio si interrompe e si congeda un attimo per portarsi al centro del prato, dove tutti lo possono vedere e suonando un corno annuncia l’inizio ufficiale della cena. Poi torna a sedersi e riprende “E’ un’iniziativa che ogni anno vede sempre di più la collaborazione di associazioni come il centro sociale La Rivana che ci ha messo a disposizione tavoli e sedie per chi ne è sprovvisto e l’associazione Viale K che li ha trasportati fino qui mentre Hera ci ha fornito bidoni supplementari da distribuire lungo il parco. La risonanza dell’iniziativa ha portato alla modifica di un articolo del regolamento comunale, per cui adesso non è più necessario chiedere autorizzazioni all’amministrazione per iniziative di vicinato come questa. Un altro obiettivo raggiunto di cui andiamo fieri è stato quello intitolare il parco ad Andrea Bui, “l’uomo che piantava gli alberi” come lo definisce la targa all’ingresso del parco, perché qui gran parte degli alberi li ha piantati lui, abitante del quartiere come noi, che senza voler niente in cambio, albero dopo albero, ha fatto crescere gelsi, fichi, noci, sui quali adesso si arrampicano i bambini. Un cittadino comune, con una sensibilità e una coscienza civica oltre il comune”.
Vicino a Patrizio, che lascio a godersi la cena, c’è un’altra scena, fatta da un tavolo di quelli che potrebbero essere miei nonni e come ogni tavolo di nonni mi ritrovo in poco seduta, con qualcosa da mangiare in mano e con scarse possibilità di rifiutare. Mi raccontano che raramente si sono persi un’edizione della cena, loro che il parco lo vivono tutti i giorni e “speriamo di esserci anche l’anno prossimo”, detto in dialetto stretto, frase cult dei nonni.
Qualche seduta più in là mi arrivano le risate da un tavolo di ragazzi. “Perché siete qui e non a far serata in piazza?” domando. “Ci sono gli amici di una vita, c’è da mangiare, c’è da bere, per una sera la piazza può fare senza di noi”. Poi si fanno più seri: “Siamo nati qui quando Krasnodar era denigrato da tutti, vivi nel Bronx ci dicevano, quando giochi a calcio quanti lucchetti devi mettere alla bici per ritrovarla?” Battute antipatiche, che ci davano fastidio. Questa sera siamo qui anche con l’orgoglio di chi ha continuato a vivere qui e può dimostrare che posto è diventato, un posto dove si fa una cena, dove vent’anni fa si aveva paura a camminare.”
Tutt’attorno scene di normale vita familiare: bambini che fremono sulle sedie per andare a giocare, i più piccoli sulle gambe dei genitori, impegnati in conversazioni con i vicini tra un boccone e un bicchiere di vino.
Di questa rappresentazione che dal particolare torna al generale, l’unico aspetto che tradisce le mie aspettative è l’assenza di multiculturalità. Di mitiche gare di cous cous combattute all’ultimo granello questa sera non c’è traccia. Un’unica famiglia tunisina si è aggiunta, quasi per caso alla tavolata. E’ Malek, giovane ragazza, da diciotto anni in Italia, che porgendomi una tazza di tè verde alla menta, mi rassicura che dietro questa grande assenza non c’è nessun motivo sociale o politico: semplicemente il caso ha voluto che la cena coincidesse con il giorno di Eid Al-Fitr, la conclusione del mese di Ramadan. E’ una festa solenne durante la quale ci si ritrova in famiglia. La realtà che mi racconta Malek è quella di un quartiere dove la sua famiglia e ben voluta e integrata, dove vede le nuove generazioni crescere sempre meno diffidenti verso un velo o un colore.
È ormai notte e una bambina biondissima mi si avvicina mentre sto raccogliendo le mie cose. “A me non la fai una domanda?” mi fa con fare spavaldo e risoluto. “Certo, che cosa ti è piaciuto di più di questa sera?” (potevo fare di meglio, lo so). Lei mi guarda da dietro i suoi occhialetti: “Dov’è il tuo quaderno? Non scrivi?” Ubbidisco e quaderno alla mano la ascolto: “Mi è piaciuto giocare fino a tardi, stare con gli amici e l’insalata di riso!”. Per fortuna la mamma richiama la mia esigente amica che in tre concetti ha racchiuso l’essenza della serata.
Intanto intorno a me l’immagine si sta lentamente dissolvendo: le persone trascinano via dalla tela verde sedie e tavoli verso la cornice di palazzi che circondano il quadro di un quartiere con una storia, forte delle sue radici, un quartiere che non si è voluto rassegnare ad una fama che negli anni Ottanta lo voleva ormai condannato ed emarginato, un quartiere che ha chiesto e preteso dalle Istituzioni di esserci, per creare reti di servizi, una Parrocchia che aggrega e integra, scuole che stringono patti educativi che arrivano fino alla strada e entrano nelle case di chi vive qui. E soprattutto ci sono i cittadini, che con una coscienza attiva hanno saputo creare collegamenti dal basso, dai piccoli gesti di solidarietà quotidiana.
Ricarico il mio vecchio tavolaccio nel baule e metto in moto, ancora canticchiando:
“gli amici a questo servono, a stare in compagnia, sorridi al nuovo ospite, non farlo andare via, dividi il companatico, raddoppia l’allegria…”