

Tempio profano dove liberare pensieri, parole e gesti figli del caos, o luogo di culto da frequentare obbedendo rigorosamente ai suoi precetti non scritti, lo stadio rappresenta un elemento che racconta tanto dei nostri modi di rapportarci alle cose. La materialità della sua forma sembra indicarci un presidio nel quale trovare riparo, mentre il tessuto urbano è in movimento. Una certezza da coltivare periodicamente, che magari si misura dalla forza di resistere alle intemperie, perfino dalla ruggine che invade gli angoli delle sue strutture. Eppure, quella capacità di contenere il tempo passa in secondo piano quando ci si accorge che più che un contenitore, lo stadio è un distributore di contenuti. Ogni volta, scandito da una partita diversa, da una gioia, da un rammarico, da un’attesa insperata, quell’insieme assemblato di segmenti di cemento e metallo, restituisce qualcosa in chi guarda. E sta alla sensibilità percettiva degli occhi dello spettatore, cogliere il regalo elargito.
Foto Eugenio Ciccone
Fotografarlo dalla propria personale prospettiva un’unica volta, in una sequenza che abbracci quel passaggio, quella discesa sulla fascia mentre i raggi del sole scendono a quell’inclinazione, quel tocco indirizzato verso la porta, e quel lembo di rete che si gonfia, è un’operazione destinata a rimanere irripetibile. Rivederne le immagini in video sarà sempre il surrogato di una sensazione provata dal vivo. Un microcosmo che si attiva in virtù della capacità di chi è chiamato ad accoglierlo. Ci sarà chi è più abile a catturarlo, chi più in grado di conservarlo. All’emozione suscitata, qualcuno reagirà con l’istinto, qualcun altro con la razionalità. E ogni bivio che si aprirà sarà lo spunto per fare i conti con il nostro comportamento. Ma se i microcosmi che lo stadio fa nascere conducono alla filosofia, il macrocosmo stadio ha parecchio a che fare con la storia. Nella città estense, per esempio, le origini del primo progetto del complesso sportivo risalgono ai primi anni Venti del secolo scorso.
Se ne ricava traccia, nelle pagine del libro ‘Alla ricerca della Ferrara perduta’, scritto da Francesco Scafuri, responsabile dell’Ufficio ricerche storiche del Comune. Nel capitolo dedicato al ‘Paolo Mazza’, infatti, si legge che nel 1923 la Società Polisportiva Ars et Labor chiede un lotto di terreno all’Amministrazione comunale. La finalità è la costruzione di un «impianto stabile capace di ospitare diverse discipline sportive, quali il football, il tennis, la corsa podistica e ciclistica». Segue, nell’anno successivo, la sottoscrizione di un atto notarile, da parte dei rappresentanti di Comune, Provincia e Società, per la concessione di un’area. Un terreno sul quale la società calcistica si sarebbe impegnata a costruire un campo sportivo a sue spese, con il concorso finanziario dei due enti pubblici. Dal progetto redatto dall’ingegnere Giorgio Gandini, e dalla posa della prima pietra nel 1925, tuttavia, nell’arco di più di un anno, il cantiere s’interrompe per problemi «di carattere economico e societario». Un balzo in avanti fino al 1927, data della relazione tecnica a cura dell’ingegnere Carlo Savonuzzi, che diviene quindi il nuovo progettista. E nel progetto trovano spazio anche «un settore per i posti popolari, realizzato ponendo in terra sei gradoni», «una tribuna in cemento armato capace di circa un migliaio di persone, completa di un’innovativa copertura a sbalzo», «un sottopassante per unire direttamente i locali destinati alle squadre sotto la tribuna con il campo, senza bisogno di passare tra il pubblico».
Ai lavori ultimati e all’inaugurazione del 1928, fanno seguito i bombardamenti bellici, per giungere al 1951, anno di promozione della Spal nella massima serie, e al relativo ampliamento. I decenni che seguono sono costellati di nuovi interventi, soprattutto in gradinata e in tribuna. Il 1982, foriero di un successo nazionale ai Mondiali, è legato all’intitolazione dello stadio alla memoria del suo presidente Paolo Mazza, scomparso nell’anno precedente. Un nome che finisce per accomunare il popolo biancazzurro, quando in massa si dirige al campo di calcio per seguire le partite.
Un rito di appartenenza a una tifoseria, che avanza con addosso un richiamo ai colori sociali della squadra, che appare particolarmente visibile nel primo anno di serie A dopo un esilio di quasi mezzo secolo, e che sembra indicare un graduale passaggio di testimone fra generazioni. Come i racconti di storie che si assomigliano ma non sono le stesse, perché ognuna ha le sue peculiarità. Come i palazzi che ricordano un principio comune, ma ciascuno lo fa con uno stile diverso. Anche lo stadio, quella struttura in cemento e metallo, probabilmente richiama elementi di qualche altro edificio. «La tribuna progettata originariamente da Carlo Savonuzzi, che risale al 1928 (poi trasformata nel tempo) – aggiunge a proposito Francesco Scafuri – ricordava quella del nostro Ippodromo (1928-29), sia pure molto vagamente, progettato dall’Ufficio tecnico comunale di cui faceva parte lo stesso Savonuzzi». Un rimando inconscio di luoghi e di storie che si mescolano, fra passato e presente.
Alla ricerca di un equilibro interiore fra il sud dove è cresciuto, e il nord dove vive oggi. Crede nel triangolo costruito intorno a un bloc-notes, una biro e un punto di osservazione alternativo sulle cose. Scrive di calcio e di altre storie sul blog www.salvataggisullalinea.it.