Il 2 settembre 1944 Ferrara subì la quindicesima incursione aerea. Fu un bombardamento notturno con l’impiego di bengala, che illuminarono a giorno ampie zone della città. È difficile immaginare l’impressione che fanno, con la loro intensa luce, assolutamente bianca, spettrale, talmente potente che è possibile distinguere alla perfezione qualsiasi cosa. Il contrasto che ne deriva con il nero del cielo, accompagnato dal rombo caratteristico degli aerei in formazione, fanno pensare a una scena apocalittica di un sogno, ma sogno non è purtroppo, è la triste realtà che precede la morte. Ti senti smarrito, come se cercassero proprio te, fuggi… ti nascondi, ma poi sei scoperto e ti senti perduto. Passano pochi attimi e le bombe cadono a grappoli. Ho letto da qualche parte che quella volta ne furono sganciate oltre cinquecento.
Morirono a centinaia, dappertutto trovavi distruzione e macerie polverose. In quell’occasione venne colpita e distrutta per sempre la Chiesa di Santa Maria della Rosa e il chiostro annesso, risalenti probabilmente al XII secolo. Il fiore non c’entra nulla, il suo nome derivava da “Roggia” in quanto vicina al canale Panfilio (Roxa) che scorreva poco distante. Veniva chiamata anche S. Maria del Tempio (perché appartenente all’ordine templare), anticamente pure “del Guazzaturo” (perché nelle vicinanze c’era il Canale Panfilio dove si portavano i cavalli a bere). Sorgeva all’angolo di via degli Armari, su cui dava la facciata. A seguire, lungo Viale Cavour, c’erano altre case accorpate al gruppo del chiostro, poi più avanti, si ergeva un bellissimo fabbricato dalla foggia del tutto particolare: il Bagno Pubblico.
Questo bellissimo complesso sembrava uno Stabilimento Termale. Era basso e molto lungo, con un corpo centrale più alto, costruito in linea arretrata rispetto al marciapiedi e con davanti un bellissimo giardino. Porte e finestre ad arco a tutto sesto, dipinto interamente di un giallo chiaro, con i rilievi a contorno delle finestre e delle porte di una tonalità ancora più chiara, quasi bianca. Tutta l’area era recintata con un muretto in stile con il fabbricato, sul quale si ergeva una pesante e prestigiosa inferriata in ferro battuto con il cancello centrale di maggiori dimensioni.
In quegli anni occorreva recuperare la maggior quantità possibile di ferro da destinare alla produzione bellica e pertanto, insieme ad altre recinzioni di altre proprietà cittadine, venne rimosso totalmente con la fiamma ossidrica. Questi interventi, drastici e avvilenti, mettevano in chiara evidenza quanto grandi fossero le difficoltà in cui versava il Paese: tutto non contava niente, perché niente aveva più valore della sopravvivenza. Anche la funzione di bagno pubblico cessò e il complesso divenne sede dell’UNPA, Unione Nazionale Protezione Antiaerea.
Cosa faceva l’UNPA? Si occupava delle problematiche relative al controllo dell’oscuramento: faceva osservare il divieto di illuminazione pubblica e verificava che i cittadini tenessero ben chiuse le finestre con gli scuri, affinché non filtrassero i minimi raggi luminosi. Erano in vigore inoltre disposizioni governative relative alle porte e alle finestre. Tali disposizioni prescrivevano che, per evitare la luminosità, i vetri fossero oscurati con carta colorata blu o tinteggiati con pittura dello stesso colore. Dovevano essere inoltre crociati con nastro adesivo per impedire, in caso di scoppio della lastra, la dispersione dei frammenti di vetro.
L’UNPA inoltre prestava i primi soccorsi alle persone e alle cose laddove fosse necessario, come ad esempio lo scavo delle macerie in collaborazione con i Pompieri. Era in pratica una “Protezione civile”, come quella che attualmente opera in occasione di calamità, ma scarsamente dotata di mezzi tradizionali e ancor meno di quelli specifici.
Quella notte del settembre ’44 anche il complesso del Bagno Pubblico venne gravemente danneggiato, quasi demolito, quindi definitivamente abbandonato. Solamente al mattino ci si rese veramente conto dei disastro e si seppe delle vittime. Ricordo che fece molta impressione la notizia che tra di esse c’era anche una bimba di 4 anni, deceduta all’ospedale. La popolazione ancora presente in città era sgomenta. Chi poteva scappava in campagna, che al momento sembrava ancora la soluzione ottimale, anche se anche questo rimedio risultò poi pericoloso per altri motivi.
Sopra la montagna di macerie, relativamente contenute dai muri perimetrali, spuntavano gli speroni delle murature principali e la facciata della chiesa semidiroccata. Le macerie furono rimosse e smaltite dopo qualche tempo, ma lo scempio rimase sotto gli occhi di noi tutti fino circa alla metà degli anni ’50. Il palazzo Ferrobeton fu costruito per primo, nel dopoguerra, sull’area ex Bagno Pubblico, poi a seguire ebbe inizio la costruzione del bellissimo palazzo dell’INA (1955/57), inglobando il ricostruito Chiostro della Rosa.
Oggi ci compiacciamo nell’ammirare le eleganti costruzioni che hanno dato un nuovo volto al Viale più importante della città, ma conoscere gli eventi che hanno coinvolto quei luoghi mi fa riflettere. Credo che se tanto scempio non fosse stato compiuto il complesso dei Bagno Pubblico avrebbe potuto far ancora la sua bella figura, (il Liberty in Viale Cavour ci sta a pennello) e la chiesa con le proprie pertinenze sarebbe stata sicuramente restaurata e valorizzata come meritava. Penso che se una persona ancora oggi mi chiedesse “Allora dove avrebbero potuto costruire il Ferrobeton e l’INA?” risponderei che forse non ce ne era bisogno, perché un altro palazzo INA esiste fin dal 1934, poi per l’altro… un’altra area l’avrebbero trovata di certo!
Si ringraziano per le fotografie i gruppi Facebook “C’era una volta Ferrara” e “Ferrara e dintorni in cartolina e fotografia”.