Parole e gesti. Il codice verbale, che ha sempre reso ridondanti le immagini pubblicitarie, in antitesi all’autenticità di un movimento, del sottotesto, del non detto. I parametri quotidiani hanno sempre incuriosito e stimolato l’arte contemporanea, ma ne sono stati anche un ostacolo. La difficoltà di comprensione, che aleggia attorno alle pratiche artistiche della contemporaneità, trova spesso una motivazione, più o meno valida, nella eccessiva “quotidianità” del processo che porta l’opera al completamento, o nel fatto che il processo stesso possa essere considerato opera. Parallelamente, le provocazioni legate alla vita di tutti i giorni, e quindi universalmente accessibili, sono quelle che catalizzano l’attenzione della fruizione; ne consegue che siamo frequentemente sottoposti a stimoli ambigui ed esagerati da parte dell’arte contemporanea.In questa caotica tempesta di impulsi, spesso corrisposti da interpretazioni altrettanto complesse, Ketty La Rocca (La Spezia, 1938- Firenze, 1976) è un tassello limpido ed ideale. Il lineare e coerente percorso evolutivo dell’artista, tra gli anni Sessanta e Settanta, fa si che la sua produzione risulti, ancora oggi, estremamente attuale e che sia al centro di una riscoperta internazionale significativa.
L’esposizione Ketty La Rocca 80. gesture, speech and word è un riassunto efficace di una ricerca altrettanto significativa che si sviluppa tra la manipolazione, anche ironica, del linguaggio verbale, e l’eloquenza autentica del movimento.
Il percorso espositivo, all’interno del Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara, curato da Francesca Gallo e Raffaella Perna, segue sia una linea cronologica che tematica dividendo, anche geograficamente, dal piano terra al primo piano, il primo momento, degli anni Sessanta, legato all’utilizzo della parola, conseguente alla collaborazione con il fiorentino Gruppo 70, fino all’ annullamento dei significanti, nella pratica performativa e nello studio del gesto.
Nelle prime sale troviamo i lavori della fine degli anni Sessanta; una serie di collage e manifesti pubblicitari, ironicamente contraffatti, sottolineano la preoccupazione di Ketty La Rocca per la posizione svantaggiata dell’emisfero femminile, ben nascosta sotto al consumismo patinato dell’epoca del boom economico. Procedendo verso il 1970, si assiste ad un processo di estrazione del significato dal significante, all’eliminazione di quel codice verbale condiviso che esaurisce il potere dell’immagine: lettere, parole e segni di interpunzione diventano icone, svuotate dal loro valore espressivo, e si trasformano in organismi autonomi assumendo caratteristiche antropomorfe. Una lettera J, in plexiglass nero, si converte in una presenza fisica, riposando nel letto matrimoniale assieme all’artista, in Con attenzione e Con inquietudine, opere del 1971. Allo stesso modo, anche la segnaletica urbana diventa un mezzo per muovere una critica alla società dei consumi, ed il suo linguaggio convenzionale viene annullato con utilizzo straniante delle parole.
Salire le scale del PAC, proseguendo la visita, è come scendere ulteriormente in profondità nella ricerca di Ketty La Rocca. L’artista sposta l’accento sul linguaggio del corpo che rimarrà comunque strettamente legato a quello verbale, liberato dalla griglia del significato, con una predominanza altalenante. Il ricco studio fotografico delle espressioni facciali, sul viso dell’artista stessa, che ci accoglie al primo piano, fa emergere chiaramente l’intento performativo della sua produzione, con un’operazione collocabile tra la Body Art e la teatralità di Antonin Artaud.
Un percorso colorato, tratteggiato sul pavimento della sala, attira l’attenzione del visitatore: si tratta del setting previsto per compiere l’azione performativa In principio erat verbum, del 1970-72; sulla parete, le istruzioni manoscritte invitano i performer a comunicare utilizzando solamente gesti ed espressioni, mentre parole e suoni non sono ammessi.
Importantissimo il videotape Appendice per una supplica, presentato alla Biennale dell’Arte del 1972, che determina il successo internazionale dell’artista essendo, non solo tra i primi video d’arte italiani, ma il primo in assoluto ideato da una donna. Scorrono immagini di mani in movimento, su sfondo nero, che ricordano il linguaggio dei segni; anche qui non c’è bisogno di parole che diventano, invece, i contorni delle immagini, nelle Craniologiee nel lavoro sulle copertine dei rotocalchi. Piccoli ricami generati da termini ripetuti, con il frequente uso di ‘you’, disegnano le sagome dei soggetti più disparati, dalle lastre di organi interni, alle modelle sulle riviste.
Il codice verbale ha perso ogni significato intrinseco. Le parole diventano litanie incomprensibili seguendo la lettura di Giordano Falzoni, documentata nel video Verbigerazione, o ascoltando l’audio della performance Le mie parole, e tu? Del 1975. Testi disarticolati ed illogici sgretolano la costruzione organizzata del significato, così come Ketty La Rocca vorrebbe smantellare la gerarchia sociale preconfezionata del suo tempo.
La chiarezza di Ketty La Rocca assomiglia sicuramente alla sincerità di un gesto involontario. L’attenzione dell’artista alla condizione della donna, è evidente e lungimirante. Biennale Donna e UDI hanno dato spazio ad una poetica così elegante, sul tema femminile, da lasciare poco spazio ai personali punti di vista.
Può sembrare incoerente, da parte mia, spendere così tante parole per elogiare l’astrazione linguistica de La Rocca, ma, riassumere efficacemente tutto in un gesto, è un processo da vero artista.