Biagio Rossetti aveva immaginato Ferrara pronta a espandersi, grazie a linee rette e potenzialmente senza fine; le città descritte dal Marco Polo calviniano hanno tutte qualcosa di Venezia; Giorgio De Chirico, figurandosi vie e piazze, le restituiva vuote e stranianti su una tela. E noi? Ci abbiamo mai pensato, a cos’è per noi la città? Se è chiaro che la città sarà la protagonista dell’articolo (era chiaro, sì?), meno banale è l’interrogativo alla base del progetto Città, senza pietà: che significato ha per noi la città? Ha ancora qualcosa da dirci? Che ruolo ha, se ancora ne ha uno?
Città, senza pietà è una mostra all’aperto, che sfrutta gli spazi espositivi normalmente riservati ai cartelloni pubblicitari per raccontare la città e trasmetterne, come recita il manifesto della mostra, il suo “potere evocativo molto forte”, i significati che “si sovrappongono e mutano in continuazione”. Provate quindi a uscire e andare a spasso, invece che in centro o sulle mura, nel quartiere Giardino. Che è poi (per chi non conosce bene i nomi dei quartieri), la zona stadio, da un po’ di tempo in qua sulla bocca di tutti ma per altre ragioni, e non esattamente luogo di passeggio. Lungo Viale IV Novembre, Corso Piave, Corso Isonzo e Via Piangipane, sugli spazi che di solito ospitano le pubbliche affissioni, tra un manifesto pubblicitario e l’altro noterete foto, illustrazioni, collage, disegni che rappresentano città vere o inventate, ideali e decadenti, raccontate coi linguaggi più disparati.
È la passeggiata che abbiamo fatto insieme a due tra gli ideatori della mostra, entrambi studenti di Architettura, che hanno chiesto di restare anonimi (al centro ci sono l’idea e il progetto, ci dicono, e non le persone), perciò noi li chiameremo immaginariamente Sofia e Alessandro. Degli studenti hanno tutto l’entusiasmo, l’intelligenza e lo stile – non ho chiesto loro perché vestissero prevalentemente di nero, ma forse era solo un caso –, di sicuro l’interesse a non lasciare nulla di intentato per far sentire la loro voce, mantenere acceso il dibattito intorno alla città.
Alessandro e Sofia fanno parte di Järfälla (dal nome di un comune svedese protagonista, anni addietro, di un ardito progetto urbanistico), collettivo nato in seno all’Università di Architettura di Ferrara e organizzatore e curatore della mostra. L’idea era quella di raccontare la città nelle sue forme molteplici, da più punti di vista, e così il Collettivo ha pubblicato una open call invitando a partecipare al progetto: chiunque avesse da dire la sua sulla città, sull’idea stessa di città, ha risposto inviando un’immagine, corredata o meno da un testo – testi che si possono trovare nella sede dell’Urban Center (palazzo Ex Mof, Corso Isonzo, 137).
– Abbiamo voluto coinvolgere non solo architetti, ma anche fotografi, illustratori, artisti, per avere più punti di vista sulla città –, racconta Alessandro.
Hanno risposto in tanti, al punto che le bacheche concesse dal Comune (undici, utilizzabili da entrambi i lati) non sono bastate a ospitare tutte le proposte. Potremmo metterci a descrivere una per una le immagini, spiegandole nei particolari e dando le nostre interpretazioni di ogni manifesto, tradendo miseramente la mostra e svuotandola del suo intento iniziale, ovvero, spiega Sofia:
– Aprire finestre in giro per la città, in modo da far spaziare lo sguardo su altre città del mondo – e lasciare a ognuno un’interpretazione e una lettura.
Questa è l’intenzione, lasciare dei segni qua e là per chi li sa cogliere, segni che suscitino la curiosità delle persone; un nuovo modo di coinvolgere chi in città ci vive ma senza mai guardarla davvero, valorizzando nel contempo una zona di Ferrara forse sottovalutata. Per questo motivo, ci si accontenterà di dare un’impressione, suscitare un po’ di curiosità.
Con noi il loro metodo ha funzionato, se è vero che in un solo pomeriggio si è respirata l’aria densa di una Firenze piena di turisti, la Milano estranea ai suoi stessi abitanti, Vienna che ha lo stesso sound melanconico della Louisiana, oppure un posto che comprende tutte insieme Lugano, Los Angeles e Rio de Janeiro, o ancora una speciale nostalgia di Istanbul che si attacca addosso, senza scampo (senza pietà) a chi deve lasciarla.
In effetti, la città si attacca alla pelle, tanto che uno degli artisti (Ermanno Cavaliere, la sua opera si chiama “Welcome” ed è l’unica che citeremo direttamente) la rappresenta come una barba da togliere col rasoio. A corredo, un testo che immagina, nientemeno, un dialogo tra Marco Polo e il Kublai Khan sullo stile delle Città invisibili, dove il viaggiatore veneziano descrive una città prigioniera di abitudini e maschere.
Può darsi che, senza accorgercene, anche noi fossimo rapiti in un sogno simile a quello delle Città invisibili: i due futuri architetti, narratori pazienti, due Marco Polo alle prese con un Gran Khan che fa domande, vuole capire, incasellare ogni città come le tessere affiancate e complementari di una scacchiera. Da capire, però, non c’è che il tentativo di interrogarsi sul mistero della città, della nostalgia nel lasciarla, della gioia nel ritrovarla, del fastidio che si prova a sentircisi costretti, soli, osservati, ignorati. Oppure, del piacere di percorrerla per trovare angoli nuovi, di cui non si conosceva l’esistenza.
Una volta che Sofia e Alessandro sono riusciti a trasmettere tutto questo, se ne sono ripartiti, come Marco Polo alla ricerca di un’altra città persa o solo nascosta nell’immenso regno di Kublai. Il Khan, dal canto suo, rimane a osservare queste ventidue finestre lasciate spalancate su altrettante città “senza pietà”.
A proposito, visto che stiamo per concludere, sapete da chi è ispirato il titolo: Città, senza pietà? Abbiamo cominciato scomodando Rossetti, Calvino, De Chirico, magari per darci un tono, ma la citazione viene da un verso di Luca Carboni (La mia città, 1992), uno che della città, della sua città, non ha mai smesso di parlare.
Ma nel frattempo, la città che ospita questa mostra e che noi abbiamo percorso un po’ visitatori, un po’ flâneurs, lei che faceva? L’aria indolente e sospesa di un pomeriggio primaverile, se escludiamo qualche clacson indirizzato proprio a noi, Ferrara è rimasta indifferente.
Oppure fingeva solo di esserlo, e intanto osservava, forse contenta che gli uomini ancora cerchino la città, immaginandola, vecchia e nuova a un tempo, di sicuro diversa e alla ricerca disperata di un filo e di linee da seguire per non scomparire, per non morire. Linee rette, curve e aggrovigliate. Potenzialmente senza fine.