Ci incontriamo in centro per un tè, tra quelle vie che hanno saputo far sentire Elisabetta a casa nonostante non siano quelle della sua città natale. Il portamento magnetico di Betta, scandito da movimenti lenti, leggeri ma inconfondibilmente incisivi, è così eloquente che spesso rende ridondanti le parole. D’altra parte è questa la sua natura: Betta è un’attrice. – A 12 o 13 anni sapevo già che avrei fatto teatro, mi era chiaro che la mia strada fosse quella – racconta sorridendo.
Posso iniziare con le mie domande. Prima di parlare, Betta si versa una tazza di tè bollente e il vapore che si forma attorno al suo viso mi ricorda il tipico espediente dei cartoni Disney per entrare in un flashback: la scena cambia sulla musica di Johann Johannsson.
Elisabetta Bianca viene da Milano, dove ha iniziato la sua formazione teatrale con Danio Manfredini e Maria Consagra; proprio Danio ha saputo deviare il percorso artistico di Betta, cresciuta con i film dell’Actors Studio, come tanti attori della sua generazione, ed approdata alla ricerca teatrale. – Non è stato un percorso così fluido, è stato anche uno scontro – racconta Betta – Sono convinta che esista una forma di talento, di attitudine, ma per entrare nel lavoro con la giusta intenzione è necessario insistere creando un accesso al proprio mondo poetico; è come superare un trauma o spaccare una crosta –. La ricerca è qualcosa di profondo e personale che esige allenamento e disciplina. Chi si approccia a questa tipologia di teatro sa di dover eseguire ripetutamente e giornalmente alcune pratiche che compongono il training, una serie di esercizi psico-fisici volti all’abbandono dei meccanismi quotidiani in favore della scoperta di nuove suggestioni da tradurre in movimento e voce.
Dopo aver studiato a lungo con i suoi primi maestri, tra cui Maud Robart, Iben Nagel Rasmussen, James Slowiak e il maestro di danza butoh Tadashi Endo, Betta entra a far parte del progetto di ricerca teatrale I Servi di Scena di Milano. Sono stati la voglia di sondare nuove strade e l’amore a condurla a Ferrara. Giunta nella città Estense, Elisabetta incontra un gruppo di attori al quale passa diversi elementi riguardanti il training teatrale in un percorso di due anni; da questo incontro, e dal successivo periodo di studio, nasce la collaborazione con il Teatro Instabile Urga, con sede nella ex scuola elementare di Casaglia. Instabile Urga, che dal 2004 rinuncia all’etichetta esclusivamente teatrale viste le molteplici influenze artistiche assimilate, promuove corsi, crea produzioni teatrali e organizza il festival Barcollanti fino al 2010. Ferrara ha saputo accogliere Betta, farla sentire protetta, assieme alla sua opera.
L’esperienza fondamentale nel percorso di Elisabetta rimane l’aver fatto parte per otto anni, a Wroclaw in Polonia, di un progetto di Ricerca Internazionale presso il Grotowski Institute, sotto la direzione di Raùl Iaiza. L’indagine si basava sullo studio dei diversi approcci del training (Plastica, Acrobatica, Ritmica) e su un approfondimento del canto corale a partire dalle antiche Laude del ‘300.
Il canto è un tassello basilare nella ricerca teatrale. Betta racconta quanto sia difficile gestire un veicolo forte come la parola: si cerca costantemente una maniera per uscire dal quotidiano con il movimento del corpo mentre il testo, che deve forzatamente adeguarsi ai codici comuni e all’orecchio per essere compreso, rischia di azzerare il percorso. Il canto è organico e capace di seguire liberamente il movimento, al contrario della parola che diventa una vera sfida.
Ponendo le domande a Betta riesco a comprendere meglio questo rapporto complesso, ma estremamente prossimo, con il testo: ogni parola assume un significato talmente importante nelle sue risposte che la osservo ragionare, pochi secondi, in silenzio, prima di iniziare a parlare. Betta sceglie con cura i termini adatti.
– Il teatro è verità consapevole, è una relazione –. La ricerca si avvale di tanti mezzi espressivi e spesso è supportata dagli oggetti; una delle relazioni fondamentali è proprio quella che intercorre tra questi ultimi ed il corpo. Gli utensili sono parte della poetica dell’attore stesso, sono scelti con cura e, spiega Betta, danno vita al racconto rapportandosi con il corpo.
Nel corso degli anni trascorsi a Ferrara, tanti giovani attori hanno approfondito e perfezionato la loro arte performativa all’interno dei corsi di formazione che Betta ha tenuto nello spazio di Casaglia.
Oggi Elisabetta Bianca ha intrapreso un percorso da sola considerando nuove possibilità espressive – Ultimamente mi sto dedicando alle letture, alla poesia e ho un progetto che coinvolge una marionetta… – si sbilancia Betta senza voler aggiungere nulla.
Quando le domando come si possano superare alcune difficoltà di comprensione tra il pubblico e la ricerca teatrale, Betta sorride, appoggia la tazza e mi dice che se lo sapesse avrebbe risolto tutti i problemi del teatro. – Poi, come sosteneva Friederick Canning Scott Schiller, non dobbiamo e non possiamo piacere a tutti, no? Questa caratteristica tipica dell’arte deve essere tenuta cara. L’artista si espone in ogni sua opera e merita comunque rispetto, anche quando non avviene uno scambio equo di emozioni –.
– Il teatro è una terapia gentile– conclude Elisabetta – riesce a far superare un trauma in maniera poetica; il teatro si prende cura di chi decide di andare oltre le questioni in sospeso-. Come nelle migliori fiabe, finito il flashback la scena torna sul tavolino del bar; due donne si alzano, si abbracciano, ed escono salutandosi sotto la pioggia leggera, tra vie del centro.